Sull’Adamant – Dove l’impossibile diventa possibile: recensione del film
Recensione del documentario di Nicolas Philibert, vincitore dell'Orso d'oro 2023, in apertura del Biografilm Festival di Bologna 2023
La diciannovesima edizione del Biografilm Festival di Bologna è stata inaugurata con la proiezione del film documentario di Nicolas Philibert, Sull’Adamant – Dove l’impossibile diventa possibile, vincitore dell’Orso d’Oro a Berlino 2023, nelle sale italiane dall’11 al 13 marzo 2024, distribuito da con I Wonder.
Philibert è un documentarista di lungo corso, noto per pellicole come Essere e avere (2003), in grado di leggere la contemporaneità, attraverso uno sguardo che si posa su e cerca di dar voce a coloro i quali stanno al margine delle grandi narrazioni della contemporaneità tecnocapitalista.
Nel caso di Sull’Adamant – Dove l’impossibile diventa possibile
si tratta delle persone affette da problemi mentali. L’Adamant è infatti un edificio galleggiante, ormeggiato sulla Senna, che funge da centro diurno per pazienti psichiatrici. Questi ultimi possono frequentarlo quando preferiscono. All’interno della struttura un èquipe di medici e formatori, aiuta uomini e donne ad esprimersi e a riconnettersi con le attività quotidiane. I pazienti aiutano a gestire un piccolo bar, partecipano alla contabilità e svolgono vari laboratori, fra cui quello sul corpo. D’altronde la schizofrenia ruota attorno a tre concetti, principalmente: la dissociazione, l’autismo e lo spazio-tempo o l’essere per il mondo. Tutti e tre questi concetti secondo Deleuze e Guattari riconducono il problema della malattia mentale all’io per il tramite dell’immagine del corpo. E proprio l’immagine corporea è il nucleo tematico su cui il film di Philibert si costruisce.
La forma del corpo (schizofrenico)
Il regista si concede un ampio numero di inquadrature-ritratti dei singoli pazienti, in cui senza cercare effetti pietistici o perturbanti cerca di restituire l’immagine materiale, la traccia dell’esistenza reale, di uomini e donne, spesso trasformati in fantasmi dalla malattia. Nelle parole di uno dei pazienti troviamo la chiave di lettura del lavoro. Gli uomini inseriti nella società sono tutti attori, sostiene l’uomo, dunque recitano una parte determinata dagli impulsi sociali. Sono specchi su cui si riflettono i meccanismi produttivi della società, attraverso un processo di rielaborazione spirituale che permette una distinzione netta fra mondo esterno e mondo interno e in definitiva fra interiorità e società. Quando qualcosa si rompe, la dinamica fra esterno e interno, fra impulso sociale e sua riarticolazione performativa subisce un cortocircuito. La malattia mentale diventa allora una crepa che crea un flusso continuo fra il reale e l’interiore, trasformando appunto gli attori sociali in forme fluide, non più in grado di recitare una parte adeguata agli impulsi, ovvero in dei fantasmi sempre cangianti. E il regista sembra assecondare questa visione attraverso un reiterato utilizzo di immagini acquatiche e di soggetti che bevono/interiorizzano la forma (cangiante) dell’acqua. Chi ha un po’ di familiarità con la tradizione filmica francese, sa che l’acqua è vettore simbolico del movimento continuo del reale, dell’impossibilità di assumere una forma definita. Simbolicamente essa è metafora del cinema stesso, inteso come dispositivo in grado di plasmare e riplasmare l’esistenza in un gioco di specchi con la natura, in grado di dare un ordine al flussob caotico e ininterrotto delle forme.
Il cinema che risana la frattura io/mondo
Ma il cinema e più in generale l’arte, grazie a questa capacità ordinatoria, divengono anche un mezzo per aiutare chi in quel flusso si è perduto. Ecco allora che davanti il cineocchio di Philibert, la soggettività dei pazienti dell’Adamant riesce ad articolarsi. Nonostante la malattia emerge una grande lucidità nell’analizzare la propria situazione, da parte degli ospiti della struttura. Coloro i quali sembravano non avere una voce razionale, riescono a raccontare al mondo le proprie storie, fissando per sempre la testimonianza di un’esistenza, che la malattia mentale, a causa appunto delle fratture nella percezione del proprio corpo nel tempo e nello spazio (con conseguenti autismo e dissociazione) spesso sembra mettere in dubbio, agli occhi stessi di chi ne è affetto.
Sull’Adamant – Dove l’impossibile diventa possibile: valutazione e conclusione
La regia di Philibert è essenziale e al servizio dello spazio e delle persone che riprende. L’autore lascia parlare la realtà, senza voler imporre al flusso dell’esistenza inutili meccanismi narrativi, che finzionalizzino il mondo. Questo è un grande pregio del lavoro di Philibert e una dichiarazione estetica importante in tempi in cui tutti, cineasti, critici e pubblico, vorrebbero solo facili storielle da poter consumare in maniera consolatoria. Philibert invece ha il coraggio di far entrare il pubblico in una porzione di reale e di lasciar parlare chi quel reale lo vive. Senza giudizi e pregiudizi.