Paradise Highway – recensione del film Prime Video di Anna Gutto
Tra il dittico letterario, Il diner nel deserto di James Anderson, il cinema di Clint Eastwood e l’incontro Dennis Lehane/Ben Affleck con Gone Baby Gone, la regista svedese Anna Gutto realizza un piccolo film fortemente americano che servendosi del minimalismo stilistico di certo cinema indipendente lavora con grande efficacia sui volti e i corpi dei suoi interpreti mettendo in luce il significato concreto e reale di ciò che è solitudine, abbandono e desiderio di ribellione
NN Editore, promettente voce distributiva milanese, forte di una considerazione sempre più ampia, non soltanto in Italia, ma anche a livello europeo ed internazionale, tra il 2018 ed il 2019 è giunta alla pubblicazione dei primi due capitoli della Serie del Deserto di James Anderson.
Intitolati rispettivamente Il diner del deserto e Lullaby Road, i due volumi di Anderson raccontano attraverso una prosa scarna ed essenziale, ma non per questo priva di poetica, dramma ed ironia, le vicende del camionista in bancarotta Ben Jones che pur di isolarsi dal mondo ha scelto lo Utah come luogo della propria esistenza e condizione lavorativa.
Ben però, pur consapevole di una scelta di solitudine totale e motivata, non ha perso mai il desiderio di innamorarsi e i suoi incontri non possono che rivelarsi veri e propri fuochi di paglia, dati alle fiamme non tanto dalla scarsa volontà di Ben, così come delle donne che incontra, piuttosto dalla violenza e dal male inarrestabile che serpeggia senza sosta tra le strade desolate del deserto dello Utah.
Un male però che trova in Ben un muro contro il quale abbattersi, perché nulla è più forte del desiderio di rivalsa, di gentilezza e di difesa. Neppure la famiglia, inevitabilmente oscura e capace anch’essa di celare violenza e rimosso psicologico, proprio come insegna Gillian Flynn.
Così come Ben vive la sua vita in simbiosi con il camion che guida dall’alba al tramonto percependo continuamente solitudine e abbandono tra le strade desolate dello Utah, anche Sally (Juliette Binoche), la meravigliosamente combattiva e logorata protagonista di Paradise Highway conduce la sua esistenza alla medesima maniera.
Sally però a differenza di Ben non è affatto intenzionata a restare sempre nello stesso luogo, poiché se è vero che la sua casa è il camion che guida instancabilmente, di giorno e di notte, è altrettanto vero che la sua casa è anche e soprattutto la strada.
Ed è proprio sulla strada che ogni certezza viene meno, infrangendosi per sempre e mutando inaspettatamente e senza alcuna possibilità di ritorno, tutte quelle logiche di vita e routine capaci di rendere un’esistenza simile appena più accettabile.
Il male è nella famiglia, anzianità e saggezza e spirito americano
– “Da dove vieni?“
– “Da nessuna parte… da tutte le parti…“
– “Questa è l’America giusto?“
È sufficiente questo scambio di battute per definire ciò che è l’anima profonda di un film come Paradise Highway, stranamente realizzato da una cineasta norvegese che apparentemente sembrerebbe aver poco a che fare con quel sentimento d’americanità così tipico della provincia, e ancor più degli ultimi.
Perché è proprio questa l’umanità che Anna Gutto racconta. Quella più provinciale, solitaria e disperata che si arrabatta, che incespica e conduce la propria vita come può, incurante di produrre il male, poiché incapace di porsi nei panni di chi soffre, venendo meno rispetto a qualsiasi principio di moralità e giustizia.
Paradise Highway lavorando sulla caratterizzazione solidissima di Sally, interpretata come detto da una meravigliosa Juliette Binoche, mai realmente così in parte, considerato il ruolo cui siamo abituati a ricollegarla, fa centro, pur senza mai aspirare ad un’idea di cinema colma di grandi rivelazioni e sequenze.
Il film della Gutto infatti adattandosi ad un minimalismo di forma e di tono, persegue una via intimista e introspettiva preferendola alla narrazione superomistica o comunque idealizzata rispetto a ideali quali forza, vendetta e sangue, così tipici di molto cinema americano recente – e non – e che ha contraddistinto molti titoli della filmografia di un autore che qui torna inevitabilmente – e anche piuttosto esplicitamente – come Clint Eastwood.
Laddove nel cinema di Eastwood, e ancor più nello specifico in Un mondo perfetto, Mystic River, Gran Torino, Il corriere – The Mule e Cry Macho – Ritorno a casa, il protagonista è nella quasi totalità dei casi un uomo forte capace di resistere a qualsiasi genere di dolore crollando per poi rialzarsi subito dopo, Sally, la protagonista di Paradise Highway è invece fallibile, vittima di cattive abitudini, ingenua rispetto a ciò che il male è, auto-sabotatrice eppure gentile.
Così come l’immaginario letterario di Gillian Flynn cui dobbiamo prodotti cinematografici e televisivi di notevole importanza come Dark Places, Gone Girl – L’amore bugiardo e Sharp Objects ci ha sempre insegnato, il male non può che celarsi nella famiglia, e noi possiamo esserne consapevoli, oppure no.
Forse Sally sceglie di non vedere – o sapere – oppure inconsciamente lo fa, portando oltre la propria solitudine e consapevolezza di sé stessa, incurante come detto precedentemente del significato del male, se perpetrato e non subito. Così quando tutto cambia, le logiche del male si ribaltano, aprendole gli occhi rispetto ad una realtà ferocemente disperata, squallida, eppure a lei estremamente vicina, cui può scegliere di appartenere oppure ribellandosi, preferendo inevitabilmente la seconda.
I due principali complici di questa scelta non possono che essere dunque quello spirito americano in principio disilluso e rassegnato e poi infine combattivo e desideroso di rivalsa, ed un’anziana ma eternamente saggia incarnazione di quello stesso principio che ha qui il volto e il corpo segnato dagli anni, ma non per questo privo di verve di Morgan Freeman, curiosamente interprete di Gone Baby Gone, titolo dalla medesima tematica citato in apertura.
Un film di silenzi, sguardi, solitudine e desiderio di tornare a vivere, nonostante i traumi, le violenze, e il male certamente inarrestabile della vita di tutti i giorni.
Conclusione e Valutazioni di Paradise Highway
Quello di Anna Gutto è un road movie incredibilmente doloroso, eppure salvifico che passando per il noir e il thriller, si fa ben presto dramma introspettivo sulla rassegnazione di una donna sola che è rimasta in attesa a lungo di quella basilare motivazione per ritornare a vivere e sorridere.
Non è un cinema sensazionalistico, piuttosto minimale e attento a fotografare una realtà che c’è, ma che molti di noi scelgono di non vedere.
Paradise Highway è disponibile sul catalogo di Prime Video dall’1 giugno 2023.