Chi era Michela Murgia, la scrittrice che diede coraggio anche a Paolo Virzì
La storia di Michela Murgia, la scrittrice che, di fronte al cancro, ha detto "non posso vincere": le vite lunghe (e dense di eredità) nella breve vita di una donna che non voleva prenderci – e prendersi – in giro.
Implacabile nello smascherare le forme invisibili di potere annidate nel linguaggio, nelle relazioni e nei codici sociali, Michela Murgia (nata a Cabras il 3 giugno 1971) ci ha lasciati a Roma durante la notte di San Lorenzo (il 10 agosto 2023), all’età di 51 anni. In vita ha svolto i lavori più disparati e ha tanto scritto. Anche ispirando il cinema. Dalla violenza conosciuta in famiglia alla fuga necessaria, la storia di un’intellettuale irriverente che amava molto, ma non voleva innamorarsi. E aveva in odio tutti gli autoinganni, compreso quello di credersi immortale.
Michela Murgia: il padre violento, le sopraffazioni in casa e nella sua terra, la Sardegna occupata dai militari e colonizzata dagli Italiani
Honoré de Balzac sosteneva che l’unica forma di potere veramente tale fosse quella occulta: troppo facile reagire alla sopraffazione se il modo in cui questa viene esercitata è linearmente riconoscibile, dichiarato dall’oppressore. Michela Murgia, nata a Cabras, in Sardegna, nel 1972 e morta ieri, nel giorno di San Lorenzo – e Lorenzo è anche il nome di suo marito, attore e regista, sposato, in un ‘anti-matrimonio’, lo scorso 15 luglio –, ha capito fin da bambina che nella famiglia gerarchizzata nel senso del primato patriarcale si nasconde la prima, ma anche la più ‘mistica’, manifestazione del potere e dell’oppressione.
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Suo padre era violento, ma della sua violenza attribuiva la colpa ad altri: se si comportava così, era perché veniva provocato, era perché i figli o la moglie facevano qualcosa di male. La sua stessa terra, la Sardegna, reca da sempre i segni della violenza e della sopraffazione aggressiva di predoni però ‘ripuliti’, apparentemente incensurabili: regione più militarizzata d’Europa, è stata soggetta a servitù militare per interessi politici e, colonizzata dagli Italiani, ha dovuto cedere all’omologazione coatta la propria lingua, e dunque il proprio pensare, le proprie linee e fogge immaginative. Michela Murgia, grazie alla sua intelligenza viva e lesta, ha capito presto che sia il padre sia le sue replicazioni non solo simboliche – gli agenti di predazione e di controllo di ogni incarnazione di alterità, differenza, dissidenza – rappresentavano un abuso di potere, l’arrogarsi il diritto inesistente di esercitare tirannia sull’altro, l’altro presuntamente debole, inferiore, difforme. Eppure, Michela Murgia aveva in odio il piangersi addosso e non si è mai creduta vittima di alcunché.
Se ne è andata, semplicemente: da casa e dal padre, in primo luogo. Prima scegliendosi un altro padre, il marito della zia Annetta, un uomo migliore, in grado di svolgere più degnamente la funzione paterna. La stessa linea del sangue spesso assume strumentalmente la forma di un mascheramento. “Non accetto il paternalismo di chi mi dice ‘ah ma è sempre tuo padre’, perché sembra una condanna a vita. Il padre è un ruolo, non è una persona. E quel ruolo, nella mia vita, l’hanno ricoperto altri uomini meglio di lui”, ha dichiarato a Simone Marchetti, il direttore di Vanity Fair che le ha dedicato, nello scorso giugno, una copertina che oggi si staglia testamentaria sull’orizzonte del futuro. A diciotto anni, non appena le è stato possibile e conveniente, ha lasciato anche la Sardegna: “La fuga non è mancanza di coraggio. La fuga a volte è l’unico modo che hai di essere viva. Per me è stato questo”.
Michela Murgia: la rivoluzionaria forza del “non posso”, dell’accettazione della finitudine biologica come parte della vita (e, quindi, di sé)
A Michela Murgia piacevano i travestimenti, ma solo quelli innocui e frivoli. I vestiti di Valentino, i turbanti, la bigiotteria vistosa. Detestava, invece, quelli insidiosi: la retorica che degenera in automatismo linguistico, in un tic che copre nel significante il significato di una parola, l’autoinganno, l’illusione consolatoria. Ad Aldo Cazzullo, in un’intervista pubblicata sul Corriere della Sera il 6 maggio 2023, disse che la sua malattia – un carcinoma renale – aveva raggiunto il quarto stadio: non ci sarebbe stata via di ritorno. Fu una piccola rivoluzione, che segna un prima e un dopo nel modo di raccontare l’esperienza di malattia e, quindi, anche di concepirla, di darle senso: di solito, chi è gravemente malato si rifugia nella metafora del combattimento. Una metafora che fa da velo. Ma Michela Murgia, sia in odio alla retorica, tanto più quella residuale di una concezione militaresca e gerarchizzata dei rapporti, sia nella consapevolezza della natura moritura della condizione umana, ha scelto di non dire che stava lottando contro qualcosa, bensì che stava morendo. Ha rifiutato il linguaggio figurato quale via di sublimazione e di aggiramento del reale: “Il cancro è complice della mia complessità, non un nemico da distruggere. Non posso e non voglio fare guerra al mio corpo, a me stessa. La guerra presuppone sconfitti e vincitori; io conosco già la fine della storia, ma non mi sento una perdente”. In quel “non posso” c’è l’accettazione della castrazione umana, della sua impossibilità di gareggiare – ancora un termine pericoloso, perché fallace – con la corruttibilità biologica, con la fine implicita in ogni venire al mondo.
Michela Murgia al mondo ci è stata in tanti modi, facendo tanti lavori: profondamente credente, cresciuta con una zia, seconda – o, forse, meglio dire “altra” – madre molto cattolica, modello di femminilità tuttavia libera, si è laureata in teologia, titolo di studio che le ha permesso di insegnare religione nelle scuole per sei anni. È poi stata venditrice di multiproprietà, portiera di notte, operatrice fiscale, dirigente amministrativa in una centrale termoelettrica. Dalla sua esperienza di telefonista in un call center ha tratto un blog in cui raccontava le avventure tragicomiche della sua quotidianità lavorativa, tra sfruttamento e manipolazioni psicologiche a cui sono soggetti i lavoratori: una satira sulla schiavitù rappresentata dal lavoro precario in un Paese in cui è culturalmente assorbita quale legittima la pratica dell’umiliazione economica e della mortificazione morale in ambito professionale. Quel blog è diventato un libro – Il mondo deve sapere (2006) – poi adattato a pièce teatrale e, infine, nel 2008, da Paolo Virzì, in un film dal titolo Tutta la vita davanti, la coraggiosa denuncia non solo della precarietà lavorativa come habitus patogeno, ma anche altrettanto coraggiosa rivendicazione del diritto alla felicità in vita, ora e non solo nella promessa di una gratificazione (forse) a venire.
Michela Murgia: la scrittura come strumento di riconoscimento e disvelamento delle infinite forme di prigionia in cui è preso l’essere umano
Michela Murgia al mondo ci è stata anche attraverso la scrittura: narrativa e saggistica perlopiù, ma anche drammaturgica. E, a teatro, non è stata solo dietro le quinte: ricordiamo, in particolare, il suo debutto come attrice nel 2018 nello spettacolo teatrale Quasi Grazia, scritto da Marcello Fois: interpretava la sua conterranea e collega Grazia Deledda. Scrivere ha significato per lei soprattutto capire e controllare la realtà, contrastarne le ingiustizie e i disequilibri. “Forse è a questo che serve l’arte, a far vedere i fili nascosti tra le cose e le persone”, diceva, “Non è così strano se a molti l’arte non piace: gli fa vedere quanto siano prigionieri, burattini, mosche intrappolate nella tela degli altri”. Degli altri, Michela Murgia non ha avuto paura, tuttavia. Ha imparato a smarcarsi dalla loro presa, a circondarsi di persone che non vogliono afferrare, invadere, stritolare, tenere in pugno l’imprendibile del desiderio di apertura proprio dell’umano.
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Al mondo, lei che amava molto ma non voleva innamorarsi – “Amo molto. Ma non m’innamoro. Perché c’è una quota di perdita di controllo nell’innamoramento che ti fa fare casini. E ti fa spesso fraintendere quello che è giusto con quello che vuoi. Che non sempre sono la stessa cosa” – ci è stata tanto anche attraverso i legami: relazioni che ha coltivato al di fuori delle definizioni correnti, non immaginando un’altra possibilità dello stare insieme, ma rifiutando di ridurre ciò che già esiste – il rapporto plurale, orizzontale e inclusivo – ai minimi termini della rappresentazione famigliare o di coppia, secondo gerarchizzazioni e ruoli rigidamente definitivi e statici.
Dopo il matrimonio contratto in articulo mortis con Lorenzo Terenzi per ragioni economico-legali, Michela Murgia ne ha celebrato un altro con la sua famiglia queer, una famiglia d’elezione, cementata dalla volontà e dal desiderio di viversi accompagnandosi, stando fianco a fianco: sull’anello famigliare di ciascun componente, è sbozzata una rana. “La rana”, ha scritto Murgia in un post Instagram del 20 luglio, “è un animale transizionale, che nella sua vita cambia stato molte volte, da uovo a girino per svariati stadi prima di raggiungere la maturità, ed esiste dentro a un continuo processo di mutamento. È anfibia, ama habitat differenti e li frequenta senza appartenere necessariamente solo a uno. Salta volentieri. Nuota. Cammina. Canta. In certe varianti può cambiare colore per mimetizzarsi, perché ci sono circostanze in cui non essere vistə può essere l’unica cosa che ti salva la vita. L’anello con la rana incarna una sola promessa: cambieremo insieme, liberə”. Ieri, 10 agosto, notte delle stelle cadenti e dei desideri segreti, Michela Murgia è cambiata ancora, per l’ultima volta. Libera.
Michela Murgia (Cabras, Oristano, 1972 – Roma 2023) è stata una scrittrice italiana. Ha esordito con Il mondo deve sapere (2006), da cui è stato tratto il film Tutta la vita davanti (2008), diretto da Paolo Virzì. Molto legata alla sua terra, ha scritto Viaggio in Sardegna (2008). Nel 2010, esce Accabadora, premio Super Mondello e premio Campiello, mentre è del 2011 Ave Mary, riflessione sul ruolo della donna nel mondo cattolico, mondo dal quale lei stessa proviene. Tra le sue opere successive: Presente (con A. Bajani, P. Nori e G. Vasta, 2012); L’incontro (2012); “L’ho uccisa perché l’amavo”. Falso! (con L. Lipperini, 2013);Chirú (2015); Futuro interiore (2016); L’inferno è una buona memoria (2018); Istruzioni per diventare fascisti (2018); Noi siamo tempesta. Storie senza eroe che hanno cambiato il mondo (2019); Morgana. Storie di ragazze che tua madre non approverebbe (2019, con C. Tagliaferri); Stai zitta (2021); Morgana. L’uomo ricco sono io (con C. Tagliaferri, 2022); God save the queer. Catechismo femminista (2022); Tre ciotole (2023). Nel 2018 Murgia ha debuttato come attrice interpretando Grazia Deledda nello spettacolo teatrale Quasi Grazia, tratto dall’omonimo testo di Marcello Fois.