Venezia 80 – God is a Woman: recensione del film d’apertura della SIC

La recensione di God is a Woman, il film per la regia Andres Peyrot presentato a Venezia 80 come film d'apertura della SIC.

Il regista svizzero-panamense Andres Peyrot dedica il suo film d’esordio God is a Woman a un ritrovamento giunto ormai insperato dopo cinquant’anni d’attesa e di mitologia ‘orale’: le pellicole smarrite del film che il premio Oscar Pierre-Dominique Gaisseau realizzò vivendo in una comunità del popolo cuna.

Gli anziani di una comunità del popolo aborigeno dei Cuna stanziata sulla costa caraibica di Panama hanno atteso quasi cinquant’anni di vedere un film nei quali erano stati coinvolti come soggetti di studio antropologico: quello realizzato nel 1975 da Pierre-Dominique Gaisseau, regista de Il cielo sopra e il fango al di sotto (1961, Oscar come Miglior Documentario, prima volta di questo premio). Ne hanno parlato tanto ai loro figli e ai loro nipoti, costruendo intorno al progetto una mitologia trasmessa oralmente. Eppure, prima una confisca da parte di una banca, poi lo smarrimento della pellicola donata al ministero della cultura panamense hanno impedito loro di godere dell’oggetto fantasticato. Solo un fortunoso ritrovamento permette a quella generazione di persone di restituire un referente concreto alla loro memoria collettiva.

God is a Woman: la genesi di un film di straordinaria qualità visiva che riflette intorno al rapporto tra immaginario e realtà

God is a Woman, recensione, Cinematographe.it

Andrés Peyrot è un giovane regista svizzero-panamense di stanza a Parigi. Nel 2010, a un festival cinematografico, incontra Orgun, un collega di etnia cuna, “popolo che culturalmente non distingue lavoro intellettuale e pratico, per il quale essere un pescatore ed essere un regista sono la stessa cosa, una cosa che si può fare insieme“. Il secondo propone al primo di visitare l’isola di Ustupo, nella comarca indigena di Guna Yala, Panama orientale, in modo che possa rendersi conto di come vive la sua gente. Peyrot segue il consiglio e si trattiene alcuni giorni, al termine dei quali manifesta al suo ospite il desiderio di realizzare un film in quel posto. “Auguri!“, risponde l’altro, “Ci ha già provato un tizio quarant’anni fa e non è andata bene“.

Il “tizio” in questione è Pierre-Dominique Gaisseau, documentarista francese che, con la moglie e la figlia piccola Akiko, aveva trascorso un anno insieme ai Cuna per realizzare un film con l’intenzione di mostrare quanto la figura femminile fosse per loro sacra. Da lì, il titolo Dio è donna, ripreso dallo stesso Peyrot quando decide che il film che aspirava a realizzare sarebbe stato su quel primo film mai mostrato alle donne e agli uomini che, nel 1975, ne avevano preso parte, un film tuttavia aderito alla loro immaginazione a tal punto da essersi fatto, nell’assenza, racconto, leggenda, canto magico, sogno interrotto ma comunque trasmesso alle generazioni successive e in loro alimentato come desiderio di ritorno a una soddisfazione sfiorata, ma mai sperimentata.

God is a Woman: valutazione e conclusione

God is a Woman, terminato da Peyrot dieci anni dopo la prima scintilla ideativa, è un lungometraggio che colpisce per la sua qualità fotografica: le immagini appaiono tornite, si stagliano sullo sfondo nella loro pienezza dimensionale e cromatica. La politura a cui sono state sottoposte le ha rese talmente nitide e brillanti da risultare iconograficamente sbalorditive. Se pure il film soffre di un’indisponibilità a sacrificare alcune scene, sacrificio che in sede di montaggio sarebbe stato tuttavia necessario, colpisce per la riflessione sulla nostra indolenza immaginativa: uno degli uomini che più spesso ritroviamo nel film, un intellettuale cuna che si è speso per il suo popolo in diversi campi culturali e politici del suo Paese, ricorda di come Gaisseau, ai tempi del suo progetto rimasto senza distribuzione a causa dell’esaurimento dei finanziamenti, volesse eliminare dalla scena tutto ciò che, sebbene reale, non collimava con la sua fantasia, con l’aspettativa di trovarsi di fronte a un popolo indigeno, un popolo che, nel suo immaginario, si configurava come incontaminato e che, quindi, doveva a tutti costi confermare nei fatti quell’apriorismo, quel pregiudizio di purezza, anche se poi la realtà di quegli stessi fatti smentiva l’assunto teorico.

Peyrot, in questo suo documentario d’esordio, in qualche modo contribuisce invece a decostruire ciò che Edward Said definiva orientalismo, la tendenza, cioè, a rappresentare rigidamente, in rapporto a un’attesa del popolo culturalmente egemone, tutte le forme di alterità e complessità culturale: la popolazione india autoctona qui mostrata – i Cuna matriarcali che tanto affascinarono Gaisseau – appare attraversata dalla dialettica con la contemporaneità e capace di integrare la necessità di preservare la propria differenza culturale con la necessità opposta di incontrare i modelli culturali dominanti, armonizzando l’inevitabilità dell’avanzamento tecnologico con la difesa della loro tradizione dai tentativi più snaturanti di aggiornamento ed omologazione globalistica.

Le persone, uomini e donne, che Peyrot riprende in God is a Woman ci stupiscono allora soprattutto per la quieta e intelligente accoglienza di ciò che gli agenti della colonizzazione ritengono per pregiudizio impossibile nei ‘colonizzati’: la certezza che il purismo sia una reazione all’insicurezza identitaria e che la contaminazione, ancorquando l’interesse principale sia difendere la propria disparità o unicità, è un’inevitabile inclinazione dell’essere umano. I popoli sopravvissuti allo sterminio dei conquistadores – gli spagnoli postcolombiani e gli americani che a Panama oggi esercitano la loro influenza culturale ed economica – non sono esemplari di un esotismo vagheggiato dagli ‘Occidentali’, ma agitatori di un pungolo che punta alla nostra aridità di pensiero, alle nostre pastoie immaginative.

Regia - 3
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 5
Sonoro - 3
Emozione - 3

3.4