Venezia 80 – The Green Border (Zielona granica): recensione del film
Un film che ci massacra e accarezza, istruendoci sulla contemporaneità con l'intento non di far esplodere la nostra rabbia bensì di renderci esseri umani maggiormente consapevoli.
La macchina da presa di Agnieszka Holland in The Green Border (Zielona Granica), presentato in Concorso alla 80ma Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, è un’arma puntata contro un’umanità smarrita; è una voce che si schiera dalla parte dei più deboli con la volontà di denunciare il dramma di tutti quei migranti provenienti dal Medio Oriente e dall’Africa e che, attirati ingannevolmente dalla propaganda del dittatore Aljaksandr Lukašėnko, si accingono a percorrere il “confine verde” che intercorre tra la Polonia e la Bielorussia, divenendo armi umane di una guerra sommersa.
Intingendo gli occhi nel dolore, Agnieszka Holland tesse sul grande schermo tutte le diapositive della stessa storia, che acquisisce tridimensionalità e fornisce allo spettatore gli strumenti necessari a comprendere le radici della tragedia in cui si affollano esseri umani la cui unica colpa è quella di essere nati nella parte sbagliata del mondo.
Usa il bianco e nero per fermare il tempo, per freddare i toni che altrimenti potrebbero risultare fiabeschi, per amalgamare al meglio cinema di finzione e di realtà, consegnandoci un reportage artistico che punta dritto al cuore, spiccando il volo verso la nostra morale.
The Green Border: quattro capitoli per narrare vita, morte e miracoli dell’umanità
Basandosi su una sceneggiatura scritta dalla stessa regista insieme a Maciej Pisuk e Gabriela Łazarkiewicz-Sieczko e sulla fotografia discernitrice di Tomasz Naumiuk, The Green Border passa in rassegna i volti segnati dalla speranza e dal dolore, i corpi distrutti e malmenati, i pensieri viscidi e crudeli di chi ha smarrito la propria umanità e lo fa articolando la narrazione in quattro capitoli che si concatenano vicendevolmente, in una parabola che dal particolare abbraccia l’universale.
La famiglia, La guardia, Gli attivisti e Julia fungono da paragrafi in una terra di confine in cui bene e male si scannano senza tregua. Si inizia così con la visione di una famiglia proveniente dalla Siria, in fuga insieme ad altri profughi, per poi mettersi leggermente al riparo dal freddo e dalla fame che li affligge per rifugiarsi nei sensi di colpa e del dovere di un giovane ragazzo che lavora come guardia di frontiera. È nel passaggio dal secondo al terzo capitolo che The Green Border si fa più politico grazie alla narrazione degli attivisti che tentano di salvare vite umane. L’occhio meccanico della cinepresa afferra le dichiarazioni di chi ha subito violenze: quante ne abbiamo viste di così simili? E a cosa sono servite?
È un viaggio di andata e ritorno senza uscita, un tragitto meccanico, debilitante e demoralizzante che ci fa sentire a disagio nella nostra stessa umanità. Un film che mette a ferro e fuoco il sogno dell’Unione Europea e tutte quelle belle favole che ci raccontiamo da soli per sbatterci in faccia la cruda realtà, per farci rotolare sul filo spinato, morire annegati in una palude di notte, restare nel bosco con i piedi massacrati, senza acqua né cibo.
C’è il dolore ed è tantissimo ma c’è anche il calore umano, che adagio ritrova la via maestra e fluisce prorompente nella volontà di personaggi come Julia, magistralmente interpretata da Maja Ostaszewska, che con grinta e fervore cuce le ferite dei malcapitati, mettendo a repentaglio la sua stessa vita e creando corridoi umanitari in cui bianco e nero si amalgamano e all’interno dei quali i ragazzi possono sentirsi semplicemente giovani: con i loro sogni, i loro dialoghi sbilenchi, le risate e le curiosità. Giovani esseri umani che respirano la vita, in una parte del mondo che secondo le astruse logiche politiche non dovrebbero calpestare.
La parte finale di The Green Border ci lascia con una carezza, dopo averci letteralmente massacrati e incatenati a uno sterminio morale che, nonostante la brutalità, non riusciamo a smettere di vedere. Non perché siamo sadici, bensì perché vogliamo sapere fino in fondo come va a finire e di quella scena finale, in cui adolescenti bianchi e neri cantano un pezzo rap che recita “Morire un milione di volte”, ne abbiamo bisogno come l’aria. Nelle loro parole moriamo e resuscitiamo continuamente, arrabbiati e al contempo grati di stare al mondo.
The Green Border (Zielona granica): valutazione e conclusione
Abbiamo bisogno della musica delicata e a tratti spionistica di Frédéric Vercheval, di tutti quei volti che si immedesimano nella realistica teatralità societaria, interpretati da Jalal Altawil, Maja Ostaszewska, Tomasz Włosok, Behi Djanati Atai, Mohamad Al Rashi, Dalia Naous. Abbiamo bisogno di The Green Border, dell’affilata regia di Agnieszka Holland, che ancora una volta usa l’arte per ribellarsi al sistema; necessità di essere trasportati in quella striscia di terra dimenticata da Dio e di aprire i nostri maledetti occhi sul mondo, affacciandoci pericolosamente su un film che non trasuda semplice rabbia ma narra con meticolosità tutti i passaggi di un calvario contemporaneo, istruendoci sulla contemporaneità.
Prossimamente al cinema con Movies Inspired, il film vede la collaborazione di Kamila Tarabura e Katarzyna Warzecha in cabina di regia, Katarzyna Jędrzejczyk alla scenografia, Roman Dymny al suono, Katarzyna Lewińska ai costumi. The Green Border è prodotto da Metro Films (Marcin Wierzchosławski), Astute Films (Fred Bernstein), Metro Lato (Agnieszka Holland), Blick Productions (Maria Blicharska-Lacroix, Damien McDonald), Marlene Film Production (Šárka Cimbalová), Beluga Tree (Diana Elbaum, David Ragonig), dFlights (Dominika Kulczyk), Downey Ink. (Mike Downey).