Roma FF18 – Te l’avevo detto: recensione del film di Ginevra Elkann
L'opera seconda di Ginevra Elkann, nella sezione Grand Public della Festa del Cinema di Roma 2023, è una fiaba catastrofista attualissima che prende direzioni difficili da comprendere.
Te l’avevo detto rappresenta il ritorno di Ginevra Elkann alla regia dopo Magari (2019). Parliamo di un progetto che fonda le sue radici nel disastro climatico che attraversiamo ogni giorno, immaginando una Roma avvolta da un coltre di calore anomalo durante il periodo natalizio. In questa nebbia un po’ fisica, un po’ metafisica, si muovono i protagonisti della storia, figure perennemente sospese che sembra rimangano in attesa di un giudizio che mai arriverà.
Il lungometraggio, prodotto nello specifico da The Apartment e Rai Cinema, con la distribuzione di 01 Distribution, è stato presentato in anteprima, nella sezione Grand Public della 18esima edizione della Festa del Cinema di Roma con una data di uscita nelle sale ancora incerta.
Te l’avevo detto: personaggi fisici in uno spazio bidimensionale
Te l’avevo detto scoppia di modernità: l’ambito descritto all’interno del lungometraggio parte da un situazione per certi versi familiare anche se estremizzata (una Roma invasa da un’ondata esagerata di calore a dicembre), anche se però quasi fin da subito è chiaro che il contesto di riferimento è solamente un teatro di posa dove si muovono i nostri personaggi, veri portatori dell’azione filmica, mentre il background rimane fin troppo passivo. Ci troviamo, effettivamente, di fronte ad un paradosso: le varie figure che si alternano su schermo, dal prete Bill (Danny Huston), alla pornostar Pupa (Valeria Golino), dalla giovane Mila (Sofia Panizzi) all’alcolizzata Caterina (Alba Rohrwacher) vanno a scontrarsi con la bidimensionalità dell’ambiente, nonostante tutti i personaggi siano, al contrario, tridimensionali.
È chiaro, quindi, che il contesto catastrofico che vediamo in Te l’avevo detto ha un’importanza più deficitaria di quanto si possa aspettare ad un primo sguardo: in tal senso l’ambientazione sembra voler catturare più l’istantanea di uno stato emotivo (in questo caso la paura dell’essere umano per una possibile fine imminente in piena coerenza con il disastro climatico che stiamo vivendo), che un vera e propria dimensione tangibile. E questa intangibilità, ad un certo punto della storia, diventa così tanto immateriale che non ha più valore né contenutistico né narrativo, perdendo forse il suo valore più importante che è quello di dare una direzione al progetto.
In una confusione generale in cui non è più chiara la bussola, i vari personaggi che abbiamo già citato, però, rivelano finalmente sé stessi, incontrando un’epifania di grande spessore. La Elkann quindi ha probabilmente voluto rinunciare alla cornice del suo film, per dare maggiore peso ai suoi protagonisti, un sacrificio necessario, ma comunque pesante perché fa muovere le sue creature filmiche lungo fili invisibili ed ignoti, senza apparenti obiettivi, in una sorta di caccia metafisica a qualcosa che non c’è. L’esempio perfetto è proprio rappresentato da questi fantomatici laghi che vengono nominati spesso all’interno della pellicola e che dovrebbero incarnare una specie di luogo dello spirito, un Paradiso che dona refrigerio da questa calura diffusa.
Sì, perché più andiamo avanti in Te l’avevo detto, più ci accorgiamo che tale posto non sembra essere vero realmente ed è più un concetto dalla forma indefinita, che una dimensione concreta. È quindi così strano vedere personaggi così ben scritti, così violentemente fisici nei loro vizi e peccati andare invece a sbattere contro un muro di illusioni. Un’incomunicabilità progettuale che, inevitabilmente, va ad impattare direttamente sulla percezione che il pubblico ha della storia, che, alla fine, non sembra narrare niente, mentre i vari peccatori raccontano già tutto, esaurendo il tema della pellicola. Va detto, comunque, che la narrazione del lungometraggio sembra trovare una formula perfetta per costruire i dialoghi e i personaggi stessi, al di là di questa ricerca inconcludente.
Te l’avevo detto: dissacrazione e simbolismo che convogliano in un finale ambiguo
Il film si avvale di un registro umoristico dissacrante che tende, nella maggior parte dei casi, ad esasperare esageratamente la caratterizzazione dei personaggi, ottenendo un buon risultato generale. I nostri protagonisti sembrano uscire più da un pièce teatrale che da un lungometraggio e questo sicuramente un punto a loro favore perché permettono una maggiore connessione con lo spettatore che sembra non vedere di fronte a sé il filtro dello schermo. Anche gli stessi dialoghi, mai drammatici del tutto, ma portatori di un sano e robusto humor nero vecchio stampo, regalano effettivamente tante risate, con quello spiraglio di riflessione che non guasta mai.
Il tutto porta a delle sequenze che cavalcano il surrealismo nonostante l’intera trama si fonda su eventi verosimili, un ribaltamento e reinvenzione della quotidianità che spiazza e non poco. Per quanto riguarda la regia, invece, appoggiandosi ad una struttura semantica ben precisa, suggerisce più volte, all’interno del film, una chiave religiosa molto forte e palese che però, anche in questo caso, si traduce purtroppo in un nulla di fatto. Lo stesso finale della pellicola, infatti, sembra condurre verso un Giudizio che, purtroppo, non vediamo mai, come se tutto quello mostrato fosse una sorta di limbo continuo che si reitera più volte. Una conclusione che lascia l’amaro in bocca non tanto perché criptica (e in ciò è perfettamente in linea con il lungometraggio), ma perché improvvisa e caotica, come fosse una scena improvvisata sul momento che però ha il compito di risolvere tutto l’intero intreccio in appena un secondo.
Un elemento che sicuramente non aiuta gli spettatori a trovare una strada definitiva durante la progressione del film è sicuramente il montaggio, che non sempre riesce a seguire bene i vari personaggi di Te l’avevo detto, incappando in alcuni salti bruschi che fanno perdere concentrazione. Proprio questa impostazione schizofrenica, conseguenza immediata di protagonisti così tanto bizzarri e barocchi, non facilita la lettura dell’opera, che, proprio per questo motivo, arriva al finale già citato, senza raccogliere gli strumenti giusti non tanto per capirlo, ma per avere un’idea di tangibilità effettiva, un’inconsistenza che quindi torna nuovamente a impestare un progetto comunque più che interessante.
In chiusura, è necessario rendere merito alla bravura del cast scelto, che, nella sua interezza, è riuscito a raccogliere una sfida decisamente complessa, ovvero dare vita a personaggi stratificati e ricchi di sfumature. Probabilmente, tra i tanti talenti, emergono in particolar modo Valeria Bruni Tedeschi e Valeria Golino, rispettivamente nei panni di Gianna e Pupa, che hanno dato vita a due donne così diverse e parallelamente così uguali, alla ricerca incessante di un tempo che non c’è più, schiave del sesso, della bellezza, dell’amore ed ingabbiate in un sistema che le vorrebbe ai margini più estremi della società.
Te l’avevo detto: valutazione e conclusione
Una regia simbolica che talune volte non segue le fila della storia; una sceneggiatura che dà il suo meglio nella costruzione dei protagonisti e dei dialoghi, ma che si perde dei pezzi quando descrive il contesto di riferimento; una fotografia peculiare ma decisamente ridondante; una recitazione perfettamente sopra le righe, con dei picchi attoriali notevoli; un sonoro sufficiente, piuttosto dimenticabile; una ricerca della verità che si traduce in un percorso inconcludente. In conclusione un film originale e piuttosto riuscito che crolla su sé stesso nel momento in cui prova a comunicare la sua anima al pubblico.
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