Roma FF18 – Kripton: recensione del documentario di Francesco Munzi
Il film, tra le Proiezioni Speciali della 18esima edizione della Festa del Cinema di Roma, affronta un tema toccante con uno sguardo umano, sensibile e totalizzante.
Kripton è il recente documentario diretto in particolare da Francesco Munzi (Anime nere, Futura) che vede al centro dell’indagine un argomento molto attuale del nostro tempo, la malattia mentale che viene raccontata attraverso le storie di sei giovani che risiedono in due strutture psichiatriche romane dove hanno deciso volontariamente di ricoverarsi.
Da questa profonda analisi cinematografica, oltre ad essere messo al centro il valore della terapia, emerge l’importanza dell’ascolto e del confronto con persone che, purtroppo, vengono recluse ai margini della società. Kripton, prodotto in particolare da Cinemaundici e Rai Cinema, è stato presentato in anteprima, tra le Proiezioni Speciali della Festa del Cinema di Roma 2023 con l’uscita nelle sale italiane prevista per il 18 gennaio 2024.
Kripton: angoscia e alienazione
Intorno a Kripton ruota una metafora potente e significativa: uno dei ragazzi protagonisti, tra i tanti deliri identitari che subisce c’è n’è uno in particolare che colpisce ovvero l’illusione di essere una creatura proveniente da un’altra galassia. Ecco quest’immagine, in realtà, ha dei forti fondamenti con la quotidianità visto che i pazienti psichiatrici (che, in maniera dispregiativa, ci piace tanto chiamare matti) sono visti come alieni, esseri di un altro pianeta che usano un linguaggio diverso dal nostro e che, soprattutto, sono ritenuti completamente apatici rispetto a quello che li circonda. Proprio il lungometraggio demolisce questa visione retrograda dei malati psichici, partendo da un assunto importantissimo: questi pazienti hanno una sensibilità diversa, superiore alla media, che li porta a subire più nettamente gli ostacoli della vita.
Chiaramente, come spiega bene la pellicola, spesso è realmente difficile capire dove risiede l’origine di alcune patologie: spesso i problemi sono causati da qualche squilibrio nella vita familiare, ma non è sempre così, visto che alcune volte si tratta di problematiche endemiche che si scatenano dopo traumi molto forti. L’obiettivo ultimo del film non è di certo quello di andare a scoprire come sono nati i disturbi dei pazienti protagonisti per trovare una soluzione, ma, dando per assodato che si parla di disturbi cronici non curabili, si approfondisce un tema che, nonostante sembra banale, è di vitale importanza ovvero la centralità del percorso psicologico che dovrebbe, necessariamente, riguardare tutti gli individui. Come saggio monito, al termine del documentario, leggiamo alcuni dati allarmanti che si riferiscono proprio ai danni seri che si generano in mancanza di un accompagnamento riabilitativo mentale.
Per creare ancora più introspezione, l’opera, che, come già ribadito, sceglie di far parlare in prima persona i pazienti che vengono indirizzati con domande mirate e spontanee senza l’ausilio di nessuna forzatura o artificialità, si appoggia anche a dei brevi filmati d’intermezzo che hanno un profondo significato simbolico. Mentre sentiamo dialogare i malati, infatti, vediamo di sfuggita, come dei piccoli flash, alcune immagini del mondo reale. Se alcune, quelle a colori, sembrano evocare serenità e libertà; quelle in bianco e nero, in negativo, non hanno sempre dei contorni definiti, esprimendo al contrario angoscia, paura e ansia.
Messe insieme, queste carrellate di intermezzo sembrano rappresentare i due momenti chiave dei disturbi mentali: ovvero la condizione “normale” del paziente, quando è lucido e razionale in contrasto con il momento di crisi che, in maniera molto efficace, uno dei 6 malati spiega metaforicamente con l’immagine di un’onda anomala che arriva improvvisamente e crea scompiglio. Proprio tale strumento registico, ben dosato da Munzi all’interno del film, diventa un impattante mezzo tematico che permette immediatamente una connessione con il pubblico. Paradossalmente, quindi, quelli che all’inizio vediamo come alieni, progressivamente diventano persone familiari che abbiamo sempre conosciuto, mano a mano che sentiamo le loro storie.
Kripton: l’umanità corale
Detto questo, lo sguardo profondo al tema della malattia mentale passa inevitabilmente attraverso percorsi inediti che comunque fanno parte del problema. Per quanto i malati siano infatti al centro dell’analisi, giustamente la macchina da presa si rivolge anche e non solo ai medici, siano essi psicologi, psichiatri e terapeuti, ma anche ai familiari che, insieme ai pazienti, vivono un Calvario senza fine. Ne esce fuori, quindi, un approfondimento ricchissimo, con testimonianze dirette (che, comunque, sono tutte diverse perché riguardanti 6 malati differenti) ed indirette, sia cliniche che personali.
Tutto questo viaggio è seguito, registicamente e narrativamente, però, con un profondo rispetto per l’argomento trattato: non c’è nessuna pietas, nessun circo mediatico, ma ascolto e confronto. Se quindi la telecamera cerca di esplorare al meglio i sentimenti e le emozioni di tutti gli intervistati, provando a leggere l’interiorità con primi piani frequenti e inquadrature in lontananza che leggono la naturalezza del momento; sul piano narrativo c’è sempre una ricerca del benessere degli “ospiti” che sono tenuti per mano con domande ben precise che non mettono mai in difficoltà ma che anzi consentono un collegamento immediato con gli ascoltatori, creando un potente ponte empatico che è difficile dissolvere.
Ecco che quindi il risultato è davvero incredibile perché non si ha solo una brillante sensibilizzazione del tema, ma anche una visione esauriente sull’argomento. Probabilmente, tra i grandi insegnamenti che emergono da Kripton, c’è sicuramente un sentimento di coralità, di appartenenza alla malattia mentale, l’accoglienza un argomento che erroneamente definiamo sempre tabù ma è parte integrante del nostro vissuto. Contro ogni stigmatizzazione e allontanamento del problema, il lungometraggio tende una mano, presentando l’argomento a tutti in modo semplice e diretto così da coinvolgere tutti, da quelli che conoscono bene o male questa problematica a quelli che invece, fino a questo momento, lo hanno sempre ignorato.
La pellicola quindi riesce nel difficile compito di unire l’informazione all’emozione, andando oltre l’indagine formale, costruendo un linguaggio specialissimo fatto di sensibilità, amore e introspezione. È spiegato più volte, all’interno del film, che non esiste purtroppo una cura definitiva alle malattie mentali e ci sono solo continue risalite e ricadute. Di fronte ad una consapevolezza così drammatica, l’unica arma vincente sembra essere la comprensione che per fortuna un progetto intelligente e posato come questo alimenta in maniera sana.
Kripton: valutazione e conclusione
Una regia che guarda l’animo degli intervistati, inframezzando le interviste con stacchi simbolici; una sceneggiatura che orienta gli spettatori con cura, mettendo a proprio agio gli ospiti; una fotografia naturalissima priva di qualsivoglia ingerenza esterna; un sonoro che si appella frequentemente a distorsioni per richiamare le crisi dei pazienti; un’attenzione all’umanità e alla sensibilità di un tema purtroppo poco battuto. In conclusione, un documentario commuovente e sentito che indaga un argomento di impellente attualità mettendo con sempre al centro le fragilità dei malati.