House of Cards: la recensione completa della serie TV, per la prima volta su Netflix
House Of Cards racconta gli intrighi del potere messi in piedi da Frank Underwood, la sua scalata al potere e la sua caduta.
House of Cards è una serie prodotta da Beau Willimon, adattata dall’omonima mini della BBC a sua volta ispirata al romanzo di Michael Dobbs.
È stata distribuita la prima volta nel 2013 su Netflix, mentre l’ultima stagione è arrivata nel 2018: la sesta è stata l’ultima perché il colosso dello streaming aveva deciso di licenziare l’attore principale, Kevin Spacey, dopo le accuse di molestie mosse nei suoi confronti (nel 2017).
La sesta stagione viene riproposta insieme alle altre cinque su Netflix dal 2 novembre: a dieci anni dal debutto originale, tutte le sei stagioni della serie cultissima saranno quindi disponibili sulla piattaforma per la prima volta in Italia: sembra strano, ma all’epoca (il 2013) in Italia Netflix ancora non c’era, e House of Cards fu programmato quindi sugli schermi di Sky Atlantic.
House of Cards: la prima e una la migliore
Mettendo per un momento da parte il discorso esclusivamente artistico, House Of Cards è stata la prima serie originale appositamente commissionata dal servizio di Los Gatos: ed è stata indubbiamente un’opera che ha cambiato radicalmente il panorama non solo della serialità, ma anche dell’intrattenimento.
Lo show di Willimon racconta i retroscena più complicati e intricati della vita politica e privata della Casa Bianca, partendo dal personaggio di Frank Underwood (Spacey), un democratico eletto nel Quinto Distretto congressuale della Carolina del Sud e capogruppo della maggioranza della Camera dei Rappresentanti. Aiutato da sua moglie Claire (Robin Wright), attraverso manipolazione, tradimento e colpi di scena Frank scalerà i vertici del potere.
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E proprio Kevin Spacey è stato il primo grande attore di Hollywood a concedere il suo volto alla tv, aprendo di fatto una stagione nella quale grande e piccolo schermo si fondono per alcuni versi -quelli della struttura narrativa- mentre per altri si fanno guerra.
Tredici nomination agli Emmy, otto candidature al Golden Globes, (sia la Wright che Spacey hanno vinto nel 2014 e 2015) nonché l’incredibile fascino della trama, la fattura di primissima qualità, una drammaturgia di prim’ordine, dialoghi brillanti, e non ultima l’attenzione dei critici e delle giurie dei premi, hanno cambiato la percezione che fino ad allora si aveva dei prodotti televisivi: e hanno sdoganato la pratica del binge watching.
Un successo incredibile (anche mai visto per motivi strettamente pratici, come si è detto) che sarebbe probabilmente continuato se Netflix non avesse stoppato la produzione: che invece si fermò quindi alla sesta stagione, con episodi che mostravano qualche crepa nella struttura coerente e coesa che era tutta la serie.
House Of Cards avrebbe meritato allora una conclusione più pensata e intelligente.
House of Cards: un finale sbrigativo e non all’altezza
Non è però tanto lontano il tempo in cui Frank Underwood fulminava (noi e il mondo interno) guardandoci da oltre lo schermo e parlandoci di quel dolore necessario che è stato il fil rouge di tutto House Of Cards: perché inesorabilmente, nel finale dell’ultima stagione, è la moglie, anzi vedova Claire a fissarci rivolgendosi alla macchina da presa.
C’è un dispiacere forte in fondo al cuore a dover parlare della chiusura di un’opera che non solo ha significato tanto intrinsecamente, per l’incredibile qualità della scrittura, ma soprattutto per come e quanto ha innovato sul piccolo schermo, facendo da apripista all’odierno colosso di Netflix, ma anche a quell’ondata di serial che prendevano la rincorsa verso il cinema e verso le sue vette emotive e qualitative proprio mentre il grande schermo stesso sembrava affondare nel pantano di medietà che ha da sempre afflitto la tv.
E il dispiacere aumenta perché House Of Cards forse non doveva finire, ma di certo non doveva finire così: la riscrittura in corso d’opera per la cancellazione (anzi, epurazione) di Spacey, motore immobile di tutta l’opera, ha di certo compromesso trame ed equilibri, perché gli ultimi 8 episodi hanno messo forzatamente al centro del racconto Claire, interpretata ovviamente sempre in maniera impeccabile da una sempre straordinaria Wright, mescolando in maniera meno abile che in precedenza storie contorte finte a cronache vere, con ricadute metanarrative che compromettono tutto.
Troppa carne al fuoco, scivoloni temporali, digressioni – sempre più – inutili, ma soprattutto la descrizione di una sofferenza intima, personale e silenziosa (leitmotiv emotivo di tutti i 73 episodi) che si fa troppo scritta, troppo pensata, troppo poco sentita, nonostante il peso non indifferente di Willimon, creatore e produttore di House Of Cards che è un sopraffino drammaturgo non indifferente al fascino del teatro.
Se il confronto inevitabile fra Claire-Robin e Frank-Kevin finisce con un pareggio (una donna che lotta per la sopravvivenza in un mondo di uomini: splendidamente retto sulle larghe spalle dell’attrice, che forse qui tocca i vertici delle sue possibilità recitative), chi si aspettava, lecitamente, ultimi episodi di fuoco è rimasto ampiamente deluso, per una scrittura buttata via e forse frettolosa.
E allora, come accade nella vita, dobbiamo dire addio a qualcosa che è stato importante per noi e non solo: sospendendo il giudizio su una sola parte – una stagione finale che manca l’obiettivo – per far restare nella memoria un totem drammaturgico di rara potenza, con un peso letterario che resterà nel tempo proprio come i migliori drammi scespiriani. Perché le serie tv (e gli attori…) vanno e vengono, ma l’arte resta per sempre.
House of Cards: una serie mitica finita presto e male
In definitiva, per tutte i suoi 72 episodi House Of Cards ha alzato l’asticella delle produzioni televisive: regia raffinatissima e mai buttata via, fotografia prosciugata e declinata sui colori cerulei in assonanza con il tono della storia, sceneggiatura di ferro, recitazione assoluta di due giganti (Spacey e Wright).
Una chiusura più ponderata forse avrebbe lasciato meno amaro in bocca, ma vale la pena di rivederla tutta.