The Visitor: recensione del film di Bruce LaBruce dalla Berlinale 2024
Il film del regista "queercore" Bruce LaBruce, in concorso alla Berlinale 2024.
Bruce LaBruce è sicuramente una delle figure più radicali del cinema queer. Caratterizzato da un’estetica punk e un’incrollabile propensione per la pornografia esplicita, LaBruce, sin dai suoi primi lavori degli anni Ottanta, si è sempre mosso all’interno di un cinema sperimentale, che tiene insieme la videoarte, la frammentarietà delle avanguardie del secolo scorso e un gusto per la provocazione e l’eccesso, al giorno d’oggi sempre più raro. Alla settantaquattresima Berlinale si presenta, da par suo, con un ramake/omaggio di Teorema (1968) di Pasolini: The Visitor.
Ci aveva già provato Miike, nel 2001, con Visitor Q. Il regista nipponico aveva preso la storia dell’ospite mistico che sconvolge, grazie al sesso, le certezze di una famiglia borghese e l’aveva traslata secondo i codici di un ero guro splatter, fortemente satirico, derivativo dell’estetica manga hentai. D’altronde nonostante sessualità esibita, fluidi corporei in eccesso e abiezioni varie, Visitor Q si manteneva al di qua del confine pornografico, preferendo concentrarsi sulla messa in scena di violenza e mutilazioni, in un contesto vagamente realistico.
LaBruce invece ritorna alla radice pasoliniana, estremizza tutto e legge la vicenda col filtro di un’attualissima satira sociale legata alla questione dell’immigrazione e del razzismo. Un africano nudo approda sulle rive del Tamigi, in una Londra contemporanea, ripresa però come fosse un’asettica città distopica. Nel frattempo sentiamo in voce off un politico reazionario fare proclami anti-immigrazione alla radio. L’uomo si stabilisce nella casa di una famiglia dell’alta borghesia, composta da un giovane padre icona di una certa maschilità omosessuale, una figlia transgender, un figlio artistoide acconciato come una ragazza, una madre che sembra essere una Lydia Lunch in disarmo e una cameriera, interpretata da un robusto punk. L’africano si rivela essere un rivoluzionario pansessuale, ha dei rapporti, che toccano vari feticismi e tabù, con ciascun membro della famiglia. Risvegliando contraddizioni e istinti dei suoi partner borghesi, egli attua un piano che ha il fine di portare al tracollo quell’ordine simbolico sociale su cui la civiltà occidentale è costruita.
Teorema contro The Visitor. Fra Sacralità e Abiezione
La trama non sembra discostarsi molto dal testo pasoliniano, ma in realtà non potremmo essere più lontani dall’autore italiano. Laddove la messa in scena di Pasolini era rigorosa e si rifaceva all’iconografia religiosa della tradizione pittorica occidentale, reinterpretandone la sacralità in chiave antiborghese, LaBruce usa invece un linguaggio destrutturato, fatto di forti cromatismi, sbavature dell’immagine, inserti grafici e montaggio al fulmicotone. Piuttosto che all’iconografia sacra classica, il regista canadese si rifà all’immaginario del cinema di genere horror degli anni Ottanta e all’estetica trash. Utilizza le luci colorate, presenta l’uomo africano, durante gli amplessi, con gli occhi bianchi, ricoperto di liquami viscosi, come fosse un mostro di Frankenstein nel momento della nascita – c’è pure un riferimento sonoro al potere dell’elettricità. Le singole scene appaiono essere dei piccoli quadri, che inevitabilmente portano a momenti di sessualità abietta e surreale, ripresa come una performance di body art. I richiami ai lavori del No wave cinema, specialmente ai corti punk di Richard Kern, sono evidenti. Tutti i riferimenti alla sacralità e alla religione sono volti all’annullamento di ogni senso del divino, attraverso l’estetizzazione mostruosa di una sessualità priva di confini morali e materiali. Non vi è alcuna condiscendenza verso l’idea della ricostituzione pasoliniana di una religiosità popolare pura, anzi tutto il contrario!
L’unica sacralità concepita da LaBruce è quella dell’abiezione, che si fa ritualità della sozzura, attraverso l’esclusione di sostanze corporee, siano esse deiezioni o secrezioni sessuali. Tali sostanze metonimicamente diventano immagine dell’alterità rappresentata dal corpo razzializzato del rivoluzionario africano. La sessualità permette il riassorbimento di queste sostanze e il loro miscelarsi con i corpi bianchi e borghesi. L’altro, il migrante, fino a quel momento escluso, vittima simbolica (e concreta) della colonizzazione occidentale, riesce a sua volta a colonizzare i colonizzatori, immettendo, letteralmente parti di sé dentro i suoi partner sessuali. In un gioco di specchi, il sesso estremo si confonde con il culto religioso (desacralizzato, lo si ricordi) e con l’arte performativa estrema (sono presenti numerosi inserti di body suspension), fornendo una rappresentazione visiva esplicita delle teorie di Kristeva su come “le diverse modalità di purificazione dell’abietto costituiscono la storia delle religioni e si compiono nella catarsi per eccellenza che è l’arte”.
The Visitor: valutazione e conclusione
Certo, bisogna però fare attenzione a non prendere troppo sul serio il tutto. Prima si diceva che l’aspetto di sacralità appena accenna a porsi al centro dell’immagine è costantemente negato, da LaBruce, attraverso l’utilizzo iconoclasta dei codici linguistici del cinema trash e di genere. In questo consiste la radicalità punk dell’autore. Consapevole infatti che il discorso portato avanti da Teorema è un discorso inscindibile dalla cultura della società di un preciso momento storico (la fine degli anni Sessanta), il regista canadese adotta il tono della parodia. Nel film di LaBruce infatti la famiglia borghese classica è ridotta ad una maschera grottesca, per cui anche la fluidità di genere appare una deformazione caricaturale, mentre il valore antirazzista del personaggio rivoluzionario, si infrange contro la reificazione filmica del cliché, tipicamente razzista e colonialista, dell’africano ipersessualizzato. The Visitor insomma finge di raccontare una parabola antiborghese di liberazione, semplicemente per affermare il fascino mostruoso di una perversa sessualità polimorfa e poter ridere, così, con cattiveria delle pulsioni reazionarie dell’Occidente. Un Occidente che, nonostante gli innumerevoli cambiamenti nei costumi sessuali e l’apparente valorizzazione delle differenze etniche, è tutto sommato ancora pateticamente fermo alle barzellette sui “negri iperdotati”, che vengono a devirilizzare il maschio bianco.