The Gentlemen è pura goduria! 5 motivi per vedere la serie Netflix
Avete visto The Gentlemen? La serie Netflix di Guy Ritchie è pura goduria e vi diamo alcune ragioni per vederla
Dal 7 marzo disponibile nel catalogo Netflix, spin-off dell’omonimo film di Guy Ritchie del 2019, The gentlemen è una dark comedy che, in otto episodi, dosa a perfezione crime, splatter (il poco che serve), humour (tanto, e rigorosamente inglese), ritmo, tensione sessuale. Ecco cinque ragioni per non perderla.
Edward ‘Eddie’ – o, per i fratelli, al femminile, ‘Edwina’ – Horniman è un soldato tra i trenta e i quaranta, secondogenito di un duca inglese. Il padre tira le cuoia; contrariamente ai codici aristocratici, l’eredità di titolo e tenuta non passano al fratello maggiore Frederick – un soggetto con qualche problema di controllo degli impulsi, una severa dipendenza da cocaina e strumenti cognitivi non illimitati –, bensì a lui, probabilmente ritenuto dal genitore più assennato e responsabile. Al funerale del defunto duca, Eddie (Theo James) scorge una giovane donna impeccabilmente vestita di nero e che, ancor più impeccabilmente, ha steso l’eye-liner sulle palpebre sovrastanti i suoi grandi occhi turchesi. Quella donna, scoprirà, si chiama Susan ‘Susie’ Glass (Kaya Scodelario), figlia e reggente di Bobby Glass, imperatore della cannabis, attualmente al quarto di dieci anni di prigione.
Susan spiega a Eddie che il suo defunto padre le aveva concesso, in cambio di un cospicuo canone d’affitto più generosa ricompensa per il rischio, i sotterranei della loro tenuta per la coltivazione della cannabis così che il business dei Glass potesse continuare a prosperare impunito. Il debito milionario contratto dal fratello maggiore prima e il piacere perverso per il malaffare poi spingono Eddie ad ‘associarsi’ a Susie e a riscoprire l’istinto ancestrale del suo sangue (blu) a versare sangue (rosso, scurissimo): non sono del resto gli aristocratici inglesi i primi banditi del Regno?
The Gentlemen, bizzarra black comedy in otto episodi creata da Guy Ritchie da una costola del suo omonimo film del 2019, esplora i punti di contatto tra malavita e aristocrazia, saldando le distanze solo apparenti tra i due mondi: il risultato è la rappresentazione adrenalinica e amorale di una serie di avventure che godono di sé stesse e fanno godere di sé stesse chi ha la fortuna di prendervi parte, anche solo come spettatore. Non c’è messaggio edificante che le sostenga, soltanto il puro gusto di vivere al di là dei limiti e di spingere sempre un po’ più in là la soglia di ciò che è accettabile. Tra glam, humor ed erotismo (a fuoco lento), ecco cinque ragioni per cui l’appuntamento coi gentiluomini – e le gentildonne – di Guy Ritchie non va assolutamente mancato.
1. La tensione sessuale tra Eddie e Susie: l’arte di cuocersi nel desiderio
The Gentlemen conta su un cast perfetto. I due protagonisti, Edward Horniman, il Duca, e Susan Glass, la ‘manager’ dell’impero della cannabis di famiglia, sono interpretati da Theo James e Kaya Scodelario, i più perfetti tra i perfetti. Due divinità. Lui, occhiaie marcate e rughette in fronte, ha capelli bruni e labbra polpose, ma, ciò nonostante, non possiede un’aura mediterranea: quando inforca gli occhiali per leggere, segno di un’età che avanza a dispetto dell’ottima forma fisica, la sua carica erotica s’intensifica senza tuttavia mai sbrodolare in volgare carisma da chico latino (le origini dell’attore, a onor del vero, sono greche). Eddie è e resta un gentleman purosangue, inglese fino al midollo: il suo self control è il biglietto da visita che rivela sia la sua origine sia la sua indole più riposta di bello che balla senza avere l’aria di farlo. “Il capitano”, come lo chiama Susie, non si scompone mai di fronte alla violenza, mantiene calma e aplomb nelle circostanze di più disparata macelleria. Unico punto debole? La famiglia. Guai a chi gliela tocca.
È lo stesso per la sua partner in crime che, come lui, ha un fratello intemperante da domare. Susie è una gangsta-lady con una frangetta e un cuore, ma mai che li mostri in disordine. Devota al glamour, cura i suoi outfit fin nel minimo dettaglio e, come i suoi abiti, così è il suo linguaggio: pungente nel formalismo, affilato nell’ipocrisia. Essere inglesi significa soprattutto questo: dissimulare. Cercare la via indiretta per arrivare al punto (e pure arrivarci), nascondersi dietro le formule, gli eufemismi, gli attenuativi più fantasiosi. Essere inglesi significa, forse, anche cuocersi nel brodo del desiderio sessuale insoddisfatto («Niente sesso, siamo inglesi!»): la chimica tra questi due nuovi interpreti di un cliché del noir – l’alchimia erotico-criminale alla Bonnie e Clyde – è tanto portentosa quanto tenuta al guinzaglio. Perché desiderarsi è mancarsi, per continuare a desiderarsi. Sempre di più.
2. Niente scandalo, siamo (assassini) inglesi: l’arte di versar sangue senza scomporsi
Un omicidio tira l’altro, e così via, in una lunga catena di sangue. Eddie ha bisogno di soldi per pagare il debito del fratello, ma, una volta risolta la questione del debito, non è più possibile fermarsi: questo non soltanto perché le circostanze innescano una serie di sfortunati eventi talmente concatenati da smarrire il bandolo necessario alla loro disciplina e risoluzione, quanto perché, in fondo, il soldato-neoduca ci prende gusto. La vita dedita al crimine è adrenalinica, e c’è chi, come Eddie, vi è particolarmente portato.
The Gentlemen concede qualcosa allo splatter, ma sempre nel segno della continenza e dell’eleganza. Il sangue versato di episodio in episodio configura più volte uno scenario da carneficina, ma i protagonisti della serie non fanno un plissé. No drama, sì understatement. Il contrasto tra la violenza e le risonanze emotive in chi la compie produce un effetto straniante amaramente comico, la cifra di uno show che non argina le sfrenatezza dei suoi gangster altolocati, ma, nel modo di mostrarle, mai frontale, sempre allusivo e sublimato nello humour, riesce a mantenersi al riparo dalla pornografia del sangue e a evitare l’estetizzazione della violenza tanto cara a prodotti analoghi.
3. Sublimare con lo humour: l’arte di spegnere la tragedia nel sarcasmo
Non solo i personaggi principali di The Gentlemen sono eccentrici, spiritosi e ricorrono allo humour, rigorosamente britannico, e quindi snob e scorretto, per stemperare la tensione derivante da situazioni spesso al limite dell’assurdo e quasi sempre tragiche, ma anche il punto di vista con cui la storia viene rappresentata è squisitamente ironico. L’ironia è distacco dalle cose, è raffreddamento della temperatura affettiva. È un’arte che, a conoscerla, salva dal dolore e dal ridicolo soprattutto quando, nel dolore e nel ridicolo – ad esempio, un certo balletto in costume da gallina, momento iconograficamente centrale in questa dramedy criminale – ci si è immersi fino al collo. A volte, si deve ballare vestiti da gallina, e non c’è vergogna che tenga. Anzi, la classe esula da un costume ridicolo; è quintessenza, non orpello. Persino in prigione, si può preservare.
Siccome lo sguardo che vigila su The Gentlemen non ha paura né del dolore né del ridicolo, e anzi guarda a queste due categorie estetiche con comprensione, come parti integranti dell’esperienza esistenziale, anche i personaggi mostrano la stessa sublime indifferenza di fronte alla farsa che la vita stessa può finire per diventare: l’umorismo è antidoto alla tentazione di pensarsi immortali, è una disciplina di finitezza (e di finezza). Tra comico e cosmico c’è solo una lettera: saperla mettere tra parentesi fa tutta la differenza. Nel disgusto e nel ripudio del pathos proprio del mélo, The Gentlemen rivendica con orgoglio e senza ripensamenti una scelta di campo: la commedia e la satira forse non sono generi maggiori, ma di certo quelli attraverso cui si può guadagnare una posizione di superiorità, l’unica che faccia veramente respirare.
4. Tenere il ritmo: l’arte di andare veloci senza lasciare nulla indietro
The Gentlemen corre e non perde costanza nella corsa. Spesso ricorre a ellissi, il cui contenuto narrativo viene recuperato attraverso flashback psichedelici. A volte, alcuni passaggi sono addirittura impressionisti, non scendono in dettagli, ma evocano nel modo più efficace quanto accaduto fuori scena. Il passo degli otto episodi è sempre veloce, eppure nulla viene inghiottito da buchi di trama: il montaggio si mette a servizio dell’esigenza di mantenere guizzante l’andamento della rappresentazione, di non smettere di batterne e incalzarne la progressione.
Lo stile di Guy Ritchie gode di molti estimatori proprio perché è inventivo nel solco della tradizione ed è pop pure nella raffinatezza drammaturgico-estetica e nella padronanza tecnica che mostra di avere. In The Gentlemen, ci sono avventurieri spregiudicati mai troppo cattivi, sempre ben vestiti e impomatati, eleganti anche nella dizione e nella retorica, che alla bisogna tradiscono e spesso ammazzano: si mescolano a personaggi che provengono dai bassifondi, nei quali talvolta persino si specchiano fino a scoprire che la dissomiglianza non è così profonda come poteva sembrare in un primo momento. Nulla di nuovo, forse. Eppure, l’impronta ritchiana si vede sempre: è nel graffio amaramente ironico, come visto, ed è nello scatto, nella regolarità della cadenza con cui la storia evolve. È tutta nel ritmo con cui la mano del regista orchestra una pletora di personaggi dissonanti che trovano una loro armonia in incastri drammatici oliati a perfezione, in un disegno che tiene insieme leggerezza e rapidità degli snodi evolutivi senza smagliarsi mai, in una compattezza sbalorditiva di moventi e movimenti. Guy Ritchie non può non dare al suo cinema – in questo caso, diluito nella scansione seriale – l’afflato adrenalinico che manca alla routine delle nostre esistenze reali, affatto cinematografiche: perché si fa cinema, se il cinema diventa replica – e non alternativa e compensazione – dell’asfissiante placidità della vita di tutti i giorni?
5. Avventurarsi: l’arte di fregarsene del bene e del male in The Gentlemen
The Gentlemen ad alcuni potrà sembrare irrealistico, ammesso e non concesso che il realismo delle vicissitudini rappresentate sia ciò che uno show del genere si dà come parametro estetico e obiettivo finale. Guy Ritchie fa cinema nel senso più proprio del termine: mette in scena un universo criminale che trova sì numerosi referenti nella realtà, ma che ugualmente quei referenti non vuole riprodurli naturalisticamente nell’altra scena della finzione drammatica, bensì trasfigurarli e spettacolarizzarli, renderli straordinari e divertenti, sebbene, come visto, rifiutando di prendere la scorciatoia del patetico e dell’orrorifico.
In The Gentlemen, la goduria della visione deriva dalla pulsione all’avventura dei personaggi in scena, pulsione che la storia asseconda sempre, senza mai giudicarla o porla in prospettiva etica: i personaggi prendono a vivere in una sollecitazione continua di sfide che li spinge a ridefinire i propri limiti e a disinteressarsi profondamente dei valori propri e collettivi. Il bene e il male non importano più o, se importano, è perché delineano un nodo soggettivo, un dilemma che radica nell’ambito della sentimentalità più che della coscienza. Alla fine, quel che The Gentlemen insegue (e raggiunge), in quanto puro cinema che si alimenta di sé stesso e del privilegio di poter immaginare e materializzare uno scenario alternativo al noioso quotidiano, è soprattutto la trascendenza morale in nome di un bisogno molto più umanizzante d’imprevisto e di azzardo. Vivere è anche accettare il pericolo. Il rischio, al massimo, è quello di morire. O di essere scoperti e finire in una cella all’aperto, insieme a molti piccioni e a uno chef tanto abile quanto torvo.