Hopper – Una storia d’amore americana: recensione del documentario di Phil Grabsky
Hopper non s’interessava alle opere della moglie, perché “raramente a un pittore importa quello che fa un altro pittore”.
Cocco di mamma cresciuto sotto una campana di vetro, ragazzone impacciato che, a Parigi, non esce la sera, marito-castratore di una pittrice (forse) talentosa quanto lui, autore di thriller su tela su cui non vuole sciogliere l’enigma: tutte le anime di Edward Hopper in un film-documentario che, inseguendo un taglio di luce, trova le ombre di un genio che non dava risposte. Il 9 aprile e 10 aprile 2024 al cinema con Nexo Digital.
Hopper – Una storia d’amore americana: un’indagine sul pittore che poneva domande
Il piccolo Edward Hopper, figlio di una coppia di agiati mercanti, scopre presto la sua vocazione per la pittura e viene assecondato dai genitori, battisti religiosissimi, ma non bigotti. Il bambino cresce e diventa un ragazzone bullizzato a scuola per la sua altezza e poi un giovane uomo che si guadagna la vita illustrando storie da rivista o pubblicità, lavoro che detesta perché ciò che davvero gli interesserebbe fare è dipingere, altra cosa rispetto a descrivere la realtà attraverso il disegno. Per il suo apprendistato, si reca a Parigi, laboratorio a cielo aperto – “i Parigini stanno sempre in giro, per le strade; Parigi è la capitale più bella al mondo, forse un po’ troppo formale per i miei parametri americani, ma nessuno più di chi vive a Parigi possiede il senso del bello” annota in un taccuino durante il soggiorno –, eppure non si dà alla vita notturna per cui la città è famosa, non incontra gli altri artisti che vi vivono, resta perlopiù chiuso nella camera di una pensione gestita da due amiche dei genitori, che replicano nei suoi confronti il “controllo matriarcale” sperimentato a casa da parte di una mamma chioccia non sufficientemente arginata dal padre sensibile e intellettuale.
Hopper, americanissimo fin dalle radici del suo immaginario, a Parigi si appassiona soprattutto ad Alta Hilsdale, una giovane connazionale con cui si vede qualche volta e che, per dieci anni, lo respinge, finendo, coerentemente, per sposare un altro e causare al suo perseverante corteggiatore un dolore fuori misura. In Interno estivo, opera in cui rappresenta una donna seminuda ai piedi di un letto, una donna all’apparenza vittima di un recente trauma sessuale, Hopper sublima il rifiuto ricevuto, l’urto scorticante con un oggetto di desiderio onnipotente da cui dipendeva la sua felicità e che pure lo ho frustrato, si è negato, lo ha lasciato solo e sconsolato a ripiegarsi sul suo sesso scoperto e offeso, offeso perché scoperto, nel duplice senso di rivelato ed esposto alla e nella sua fragilità radicale: quella donna ferita è lui, proprio lui. Delle donne raffigurate da Hopper di solito si dice che sono sole, anche se insieme ad altri, o con lo sguardo lanciato nel vuoto, forse alienate, forse depresse. Ma su di loro grava chissà un pregiudizio, la convinzione che siano tutte, indistintamente, estensioni dell’artista, incarnazioni delle sue pulsioni securitarie, proiezioni del suo ritiro libidico. A Hopper interessava dipingere soggetti umani, paesaggi ed edifici in ugual misura, perché ciascuno di essi gli “piaceva almeno un po’”. La relazione tra questi tre elementi, uno animato, uno semianimato e l’altro decisamente inamine, resta inesprimibile, non è coperta da alcuna semantica possibile, si colloca al di là di qualsiasi atto di parola: “Perché dipingere qualcosa”, rispondeva spesso a chi glielo chiedeva, “se quella cosa può essere detta?”.
Non è dunque per forza la solitudine o la traccia di un’ossimorica assenza presente – o di una presenza assente – che troviamo nei dipinti di Edward Hopper, quanto soprattutto un’enigma narrativo, un’ellissi di trama, un buco postmoderno nella storia rappresentata prontamente rimbalzato all’osservatore: le sue tele sono tutte film – Hopper amava molto il cinema, in particolare quello noir, e il teatro – di una sola scena a cui seguirà un’altra, la cui rappresentazione è però rimandata alla soggettività dell’osservatore. Non solo una soggettività decodificante, ma anche demiurgica, narrante essa stessa. A lui (o a lei) soltanto spetterà inventare cosa succede: se nulla o tutto. Se è vero che dall’inconscio proviene la qualità espressiva di un’opera d’arte – e, del resto, a Hopper importava poco della mente cosciente –, nei quadri del pittore più amato dagli Americani possiamo reperire numerosi indizi di un complesso di separatezza, elaborazione fantasmatica della campana di vetro sotto cui è cresciuto, represso e per questo creativo: abitazioni, locali, negozi spesso sembrano sbarrati, impenetrabili.
Hopper – Una storia d’amore americana: valutazione e conclusione
“I suoi spazi sono puliti, bianchi; le sue forme appaiono purificate; le figure umane sono anche razzialmente codificate come bianche” fa notare una studiosa, eppure, in Chop Suey (1929), le due donne che pranzano al ristorante cinese sono senza accompagnatori, vestite e truccate bene: una generazione prima sarebbero state avventuriere disposte a concedersi, percepite alla stregua di prostitute, e invece, nel momento in cui vengono ‘registrate’ dal pennello insieme morbido e austero di Hopper, sono già un’altra cosa, donne emancipate che costruiscono la loro vita, cercano di plasmarla alle loro condizioni. Più che disinteressato ai cambiamenti sociali che arroventavano intorno, Hopper li commentava in modo sottile, con una riservatezza non didascalica, eppure ricettiva, persino responsiva. Mediava la realtà sociale, non raccontava troppo: nella scelta di non saturare, l’essenza di una poetica che rinviene nel vuoto dato dall’ignoto, dalla diserzione informativa, un’opportunità per fare passare la luce, da intendersi sia letteralmente, quale fenomeno fisico, sia metaforicamente, come occasione di riempire quello che non c’è attraverso la risonanza soggettiva, l’invito a continuare il racconto imbeccato dal quadro e rimasto inevaso nel quadro, rimandato a un tempo narrativo altro, inespresso dell’opera e compiutamente esprimile solo grazie alla collaborazione dello spettatore, alla sua sensibilità sollecitata.
“Mostruoso egoista” con la moglie Josephine Nivison, sposata quando entrambi avevano già quarant’anni e a sua volta pittrice di talento, Hopper è sempre stato un uomo taciturno, poco propenso alla comunicazione, pertanto incline a esplosioni aggressive: il suo successo è coinciso con il sacrificio di lei, che, per fargli spazio, ha smesso di dipingere e si è messa al suo servizio, prestandosi a posare per lui ogniqualvolta lo richiedesse. Alla sua sagoma, Hopper sovrapponeva quella di donne incontrate (raramente) o, più spesso, viste in qualche film oppure, ancor più di frequente, fantasticate. “Se potessi tornare a dipingere, forse mi libererei” scriveva lei nei diari tenuti nei tanti anni di un matrimonio sì instabile, ma infine mai del tutto destabilizzato dal cattivo carattere di lui: testimonianza di una sofferenza coniugale rimasta inavvertita. Hopper non s’interessava alle opere della moglie, perché “raramente a un pittore importa quello che fa un altro pittore”. Vicenda di un’ordinaria sopraffazione domestica, di un ordinario squilibrio tra poteri, di ordinario sfruttamento a vantaggio maschile. Hopper – Una storia d’amore americana, documentario nelle sale il 9 e 10 aprile, ce la racconta, rifuggendo tuttavia l’aneddotica, evitando di appiattire nel biografismo la ricerca inesausta di un maestro del thriller che non sarà stato un marito esemplare, ma che, forse persino più di Hitchcock, è stato in grado di rappresentare, insieme alle più monotone e composte delle circostanze di realtà, anche l’indicibile di un segreto che sfugge alla presa: magari non c’è, ma noi lo sentiamo, e ci inquieta.