La ragazza delle renne: recensione del film Netflix
Identità, perdita e riscatto nel romanzo di formazione che Elle Márjá Eira ha tratto dal bestseller omonimo di Ann-Helén Laestadius. Dal 12 aprile su Netflix.
Tra le opportunità offerte dalla Settima Arte c’è la possibilità di visitare luoghi, incontrare gente e ascoltare vicende che difficilmente per motivi logistici avremmo visitato, incontrato e ascoltato nella nostra vita. Anche se tutto ciò come nel caso di La ragazza delle renne avviene da remoto, comodamente seduti sul divano di casa davanti a uno schermo, resta comunque un’esperienza che altrimenti con molta probabilità non avremmo mai vissuto. Il film di Elle Márjá Eira, rilasciato lo scorso 12 aprile 2024 su Netflix, in tal senso è un’occasione più unica che rara di entrare nuovamente in contatto con i Sami, una delle popolazioni indigene del Nord Europa la cui storia, sebbene non troppo nota, soprattutto tra i popoli mediterranei, è costellata di ingiustizie e brutalità. Per secoli la loro rivendicazione territoriale si è scontrata con la colonizzazione della Scandinavia. Fino agli anni Cinquanta infatti, prima che i Sami decidessero di stanziarsi, formando agglomerati urbani e ottenendo una rappresentanza nei Parlamenti di Svezia e Finlandia, il loro stile di vita è stato nomade e tutt’altro che benvisto tanto da essere ancora soggetto ad attacchi xenofobi, discriminazioni e razzismo.
Al centro di La ragazza delle renne una storia di resilienza, tradizioni, di indissolubili legami ancestrali, ma anche di violenze e ingiustizie e difesa dell’ambiente
Riavvolgendo il nastro, correva l’anno 1975 quando la serie tv (in onda su Rai 2 nel 1977) Ante, ragazzo lappone ci portava per la prima volta al seguito di un sami, per la precisione di un bambino proprietario di un piccolo gregge di renne e della sua difficoltà nell’adattarsi ad una scuola norvegese nella città di Kautokeino, un comune della contea di Finnmark situato all’estremo nord del paese in Lapponia, lo stesso dal quale proviene la regista di La ragazza delle renne. Tra quello show e l’opera prima di Elle Márjá Eira ci sono stati altri sporadici incontri audiovisivi che hanno permesso a quel popolo e alla sua storia di resilienza, tradizioni, di indissolubili legami ancestrali, ma anche di violenze e ingiustizie subite, di arrivare all’attenzione del resto del mondo approdando sul grande e piccolo schermo con una manciata di opere che hanno lasciato il segno come Sami Blood di Amanda Kernell e Jeʹvida di Katja Gauriloff. Tutte, compresa quella in oggetto, hanno in comune le suddette tematiche, ma anche il racconto di quanto la comunità in questione ha dovuto combattere per rivendicare i propri diritti. Diritti questi che deve ancora rivendicare e per i quali è costretta a lottare.
Un romanzo di formazione incastonato all’interno di un dramma sociale
La regista e sceneggiatrice norvegese di origini sami ha trovato tutto questo e di più nelle pagine del bestseller di Ann-Helén Laestadius dal titolo Stolen, pubblicato per la prima volta in Svezia nel 2021 prima di essere tradotto e venduto in oltre 20 Paesi ed avere ricevuto il riconoscimento come miglior libro svedese dell’anno. Motivo per cui ha deciso di farne una trasposizione cinematografica che le ha consentito di tornare a parlare, come in altri lavori del passato, di una realtà e di argomentazioni che conosce molto bene. Lo ha fatto esplorando i temi dell’identità, della perdita e del riscatto attraverso lo sguardo e il punto di vista femminile di una ragazza sami di nome Elsa, in quello che si potrebbe considerare un romanzo di formazione incastonato all’interno di un dramma sociale. La trama ruota attorno a lei e a una serie di sfide che sin da piccola si trova a fronteggiare e che minacciano da diversi fronti la sua comunità di appartenenza situata appena a nord del Circolo Polare Artico: dal cambiamento climatico che ha alterato la natura alle nuove generazioni che sembrano restie al sacrificio e arrivano persino a suicidarsi, passando per la salvaguardia dell’identità indigena messa a repentaglio dalla xenofobia da un gruppo di individui che non rinunciano a sterminare e rubare le renne dell’allevamento. Alla protagonista, interpretata con credibilità e grande coinvolgimento emotivo da Elin Oskal, una volta adulta non resterà che combattere contro tutto questo per difendere se stessa, le sue radici e le renne di cui si prende cura.
La regista accenna e insegue per tutta la durata della timeline un equilibrio che però viene meno e non gli consente di tenere insieme tutti i tasselli del puzzle
In La ragazza delle renne convivono dunque più anime, tenute insieme come era stato anche per il potentissimo Sami Blood dai caratteri fondanti del coming-of-age. A parità di intenzioni, la differenza sostanziale sta però nel modo decisamente più incisivo, politico e a fuoco della Kernell di affrontare tutta la vasta gamma di argomentazioni dal peso specifico rilevante chiamati in causa e messe a disposizione da una storia come questa, facendole convivere con il percorso a ostacoli di crescita della protagonista in un ambiente sociale, topografico e climatico ostile. La Eira invece accenna e insegue per tutta la durata della timeline un equilibrio che consentisse anche a lei di tenere insieme tutti i tasselli del mosaico, ma ciò non avviene. Ecco allora che dalla visione della pellicola emerge questo tentativo non andato a buon fine di creare un tessuto narrativo in grado di contenere e affrontare il tutto. A conti fatti però si palesa un disequilibrio che pone l’accento su alcuni aspetti piuttosto che su altri. Se da una parte il messaggio animalista, ecologista e climatico arriva e si riverbera sullo schermo ciclicamente e a più riprese, dall’altra la dispersione, il didascalismo e l’incapacità di scavare più a fondo con i quali vengono approcciati e affrontati sottotesti importanti come la depressione, il suicidio e la xenofobia rendono il discorso complessivo meno performante.
La ragazza delle renne: valutazione e conclusione
Per la sua opera prima Elle Márjá Eira decide di affrontare temi a lei cari e che la riportano alle sue origini sami, le stesse che condivide con la protagonista del libro dal quale il film è tratto, ossia Stolen della scrittrice Ann-Helén Laestadius. Il risultato è un romanzo di formazione incastonato in un dramma sociale, quello di un popolo oppresso e ancora vittima di attacchi xenofobi, che chiama in causa tematiche universali come l’identità, la perdita e la resilienza, mescolandole con profondi messaggi animalistici e ambientalisti. Purtroppo tutto questo magma incandescente non trova sempre le giuste corrispondenze e lo spazio necessario per approfondirlo ed esplorarlo. Ne viene fuori un’opera incompleta, di quelle che vorrebbero ma non possono, lasciando l’amaro in bocca per ciò che sarebbe potuta essere e invece non è stata. L’autrice perde dunque un’occasione. Motivo per cui consigliamo di recuperare il potente Sami Blood, che condivide gran parte delle tematiche di La ragazza delle renne, ma con un livello di coinvolgimento e performante di gran lunga superiore. Nota di merito per la performance intensa e sentita di Elin Oskal nei panni della protagonista e della fotografia di Ken Are Bongo che riesce a catturare e restituire sullo schermo la bellezza selvaggia dei luoghi che fanno da cornice alla vicenda.