The Second Act: recensione del film d’apertura del Festival di Cannes 2024
Il film di Quentin Dupieux, con Léa Seydoux e Louis Garrel, ha aperto la 77ª edizione del Festival di Cannes
Il meta-cinema che si prende gioco di sé stesso, il sarcasmo che smonta la quarta parete; dopo i recenti Daaaaaalí!, presentato alla 80ª edizione del Festival di Venezia, e Yannick – La rivincita dello spettatore, candidato al Pardo d’oro di Locarno nel 2023, con The Second Act il regista, sceneggiatore e musicista Quentin Dupieux apre il Festival di Cannes 2024 e lo fa alla sua maniera: irriverente, pungente, frizzante, un’originale ed attenta fotografia del cinema odierno, atta a muovere un’offensiva che sa divertire e al contempo indagare con attenzione aspetti sottaciuti da un’industria incapace di reggerne l’urto.
Lo schermo è preda di piani sequenza, di dialoghi dalla sagacia quasi grottesca e del puro talento interpretativo dei suoi protagonisti, tra i quali non emerge nessuno, o meglio emergono tutti, attori alla pari, proporzionati di sequenza in sequenza; ma se Vincent Lindon, Léa Seydoux e Louis Garrel non hanno bisogno di presentazione, meritano una speciale menzione Manuel Guillot e il giovane feticcio di Dupieux, Raphaël Quenard, già protagonista dello stesso Yannick.
Leggi anche Meryl Streep riceve la Palma d’Oro onoraria a Cannes: il commosso omaggio alla madre
The Second Act: un atto di sarcastica offensiva
“Ci sono tanti spettatori lì fuori, siamo esposti, dobbiamo dare il buon esempio“.
La sequenza del film che segue l’apertura ci sbatte in faccia i propri intenti senza preoccuparsi di chiedercene il permesso, superando rapidamente il pretesto contestuale di cui inizialmente si erano poste le basi: l’incontro tra una giovane coppia, il padre di lei ed un’amico esuberante. I primi 20 minuti di pellicola seguono un serrato ed incandescente scambio di battute tra David (Louis Garrel) e Willy (Raphaël Quenard), un’unica ripresa che segue le irriverenti invettive dei due personaggi e che vede il politicamente scorretto sfociare nell’abbattimento della quarta parete e porci di fronte alla vera natura di un’opera che altro non è che la messa in scena di una messa in scena.
Seguono Florence (Léa Seydoux) e Guillaume (Vincent Lindon) in una sequenza specchio che rimarca gli intenti del film e ci porta su quel crescendo meta-teatrale che sublima nell’atto centrale, in quel punto di rottura che volge poi ad un’ultima parte, anch’essa in grado di sbaragliare nuovamente le carte; atti che ripetono sé stessi, ponendo nella mente dello spettatore il dubbio destrutturante di cosa sia la realtà e cosa la finzione.
Realtà che finge o vera finzione?
Il coraggio dell’opera si ravvede nei suoi intenti denunciatori, alleggeriti dall’ironia che impera su ogni fotogramma, fatta eccezione per il disilludente epilogo. Dupieux opera una denuncia del cinema presente, passando al setaccio tutte le incombenze che definiscono oggi la settima arte nelle sue costrizioni, dall’imprudente divenire dell’intelligenza artificiale all’asfissiante ed incontrollata diffusione del fenomeno della cancel culture, schernendo l’interpretariato francese, schiavo delle proprie manie e dei propri patimenti, senza mancare di citazioni pungenti nei confronti del cinema hollywoodiano.
È un cinema che si guarda, che si analizza e che si interroga sulla propria natura, portando il personaggio in platea, piuttosto che lo spettatore all’interno del girato, e giostrando un pericoloso gioco di sovrapposizione tra la finzione ed il vero, in cui risulta impossibile riconoscere fino a dove si spinga lo scritto e quando subentri l’improvvisazione.
The Second Act: valutazione e conclusione
Con il suo 13° film in 15 anni Quentin Dupieux si conferma artista versatile, capace e consapevole, oltre che un coraggioso teorico e critico dell’arte; oltre a dirigere scrive, oltre a scrivere musica, e con questo realizza l’ennesimo pezzo di carriera che pone l’occhio sull’umano, sempre in maniera fresca, originale, tutt’altro che scontata ma sempre ricongiungibile a ciò che l’ha preceduta, quasi un continuum di Yannick, che senz’altro comunica con esso ed aggiunge, incrementa.
La sceneggiatura merita encomi: parte con una forza calamitica inaspettata e, pur sembrando ridefinirsi nella seconda parte, recupera con un finale che pone nuovamente tutto nell’incertezza, nell’indefinito; ad accompagnarlo una regia saggia, semplice, consapevole che bastano poche sequenze dense di dialogo e di contenuto per riuscire nell’intento prefisso: parlare al pubblico del cinema e parlare al cinema del pubblico. Il tutto vien condito dall’attorialità, da cinque interpreti che fanno dell’eccezionalità una elemento certo, dando il senso di quanto la recitazione possa essere vera quanto la realtà.
The Second Act è il cinema spiegato dal cinema nelle sue criticità, The Second Act è necessario.