Edoardo Pesce ed Enrico Maria Artale su El Paraíso: “L’origine della nostra identità è la madre”
Enrico Maria Artale, regista. Edoardo Pesce, protagonista. Coppia d'eccezione per presentare alla stampa El Paraíso, vincitore a Venezia 2023 e in sala il 6 giugno 2024.
Cominciare parlando di Pablo Larraín; si può? Il grande regista cileno, nome di punta del cinema d’autore contemporaneo – quello di Jackie (2016) e Ema (2019), per intenderci – ha molto a che fare con El Paraíso, il film diretto da Enrico Maria Artale e interpretato da Edoardo Pesce (suo il soggetto) e Margarita Rosa De Francisco, in sala per I Wonder Pictures il 6 giugno 2024 dopo il trionfale passaggio a Venezia 2023, Miglior Sceneggiatura e Interpretazione Femminile nella sezione Orizzonti. Come e perché, sta a Enrico Maria Artale spiegarcelo. “Ci siamo incontrati tempo fa, c’era anche Edoardo. Gli abbiamo raccontato il film, all’epoca la storia era molto diversa e lui ci ha incoraggiato, dicendoci: è una cosa potente, andate avanti. L’incubazione è stata lunghissima, pensate che nel tempo che mi ci è voluto per girare il film lui ne ha fatti due. Ci siamo risentiti poi, perché mi serviva il suo aiuto per avere un brano di Nicolas Jaar, cileno pure lui e che aveva lavorato su Ema; ce lo ha dato gratis. Pablo ha quindi voluto vedere il montaggio e mi ha parlato di cose che dovevo fare sul film”. Il lieto fine, per entrambi, arriva nella stessa serata. “Il percorso si è concluso a Venezia nel 2023 quando abbiamo preso lo stesso premio (quello per la sceneggiatura, ndr) ma in due sezioni diverse. Abbiamo festeggiato insieme. Pensare che è nato tutto la sera in cui lo abbiamo portato a cena nella trattoria del cugino di Edoardo a San Giovanni”.
Sceneggiatura di Enrico Maria Artale, ma soggetto di Edoardo Pesce. Nasce tutto da “una mia suggestione (che va preservata, per amore di spoiler, ndr). Il film doveva finire con il protagonista che porta la madre a Graceland, la meta era proprio la tomba di Elvis, ma girare lì era difficile. Ne ho parlato a Enrico e abbiamo cominciato a lavorarci sopra”. Il suo personaggio, Julio Cesar, è un figlio della periferia, ma se a qualcuno viene in mente di chiamarlo coatto, spiega ancora l’attore romano, “può farlo, ma solo nel senso latino del termine: costretto, in una situazione periferica. Enrico l’ha sviluppato”. Il film è il suo più personale e c’è l’elemento di novità del soggetto, di cui è autore. Ne ha anche altri nel cassetto, Edoardo Pesce. “Un paio, cose molto semplici”. Non ha nessuna intenzione “di fare il regista, perché per quello serve una preparazione speciale”. Gli dicono che il ruolo è diverso dai suoi consueti, non un cattivo. Più malincomico. Il problema è che “se fai una cosa che ha successo, poi ti propongono sempre la stessa parte. Nella mia carriera ho detto molti no proprio per evitare di trovarmi in questa situazione”.
El Paraíso ha un protagonista che è la sintesi caratteriale del regista e dell’interprete
Enrico Maria Artale si è avvicinato al film perché “mi attrae ciò che è marginale, è una cosa che ha un bell’appeal ai miei occhi. Mi incuriosicono anche certe realtà psichiche che cerco di mettere in scena, ma in maniera non provocatoria”. Il suo è un cinema che guarda al mondo di oggi e se c’è un sottotesto politico, va un po’ chiarito. “Non parto da una posizione ideologica, deve esserci un incontro istintivo. E se la storia è politica, lo è soprattutto nelle emozioni e nel racconto. Ho molto rispetto, ovviamente, per chi fa un cinema politico più classico”. L’attrazione per i margini è condivisa da Edoardo Pesce. Ha sempre tante idee da proporre, spiega Enrico Maria Artale. “Ha un sacco di flash, è una fucina di suggestioni. Molte me le ha raccontate, tante sono intelligenti, ma solo questa mi ha toccato. Non basta avere una bella idea, deve esserci un fuoco interiore. Lo incoraggio sempre, in questo senso”.
Il film è parecchio personale, per entrambi. Per il regista romano “il rapporto del protagonista con la madre echeggiava il mio. Lo volevo esorcizzare, comprendere e accettare. Julio è l’alter ego mio e di Edoardo: è una strana sintesi di molte zone nascoste nel mio e nel suo carattere. Scrivevo il film pensando ai suoi comportamenti e lui girava rifacendo magari alcune cose che mi appartengono. Ci conosciamo benissimo, siamo amici”. Ha l’ossessione di mescolare verità e finzione scenica in modo che “non si capisca più cosa è vero e cosa no. Per esempio, ho voluto che Edoardo e l’attrice che fa la parte della ragazza (Maria del Rosario, ndr) non si incontrassero fino alla loro prima scena insieme. Stavano in posti diversi, con gente diversa. Quando, nella seconda metà del film, Edoardo resta solo, ho deciso di parlargli di meno e lui si è adombrato. A quel punto, comunicare con lui era più difficile”.
Scherza, Edoardo Pesce, parlando del rapporto con sua madre, quella vera. “No, a differenza di Margarita nel film, lei quando si droga lo fa sempre da sola!”. Paragoni materni, in scena e fuori. “Mia madre somiglia a Margarita per com’è realmente, posata, equilibrata. Pensate, stava laureandosi in filosofia mentre giravamo. Studiava Kierkegaard online e io tra una scena e l’altra le dicevo, ma che c…o te leggi Kierkegaard!”. Il tempo di El Paraíso è volutamente confuso, un presente senza riferimenti precisi, spiega Enrico Maria Artale. “Il mondo del film è il nostro presente ma la musica è anni ’70, la macchina appartiene ai ’90 e c’è tutta questa nostalgia colombiana. Non volevo essere troppo attuale, meglio confondere le acque e cercare di essere universali”.
Oltre alla relazione particolare tra questa madre e questo figlio, c’è anche un altro grande tema nel film. L’origine. “Mi sento un romano per finta” spiega il regista “perché tutta la mia famiglia è siciliana, così pure mio padre che ho conosciuto da grande. Se il resto lo mettiamo in stand by, se ci liberiamo delle ideologie per un momento, l’origine, la sorgente dell’identità, non culturale ma emotiva, è la madre. Parlare delle origini significa andare al cuore della questione. E Julio nel finale, nella sua apparente disfatta, cercando questo paraíso, paradiso, che chissà se esiste o no, arriva a fare questo ballo che è molto importante”.
Salsa colombiana, affinità tra Roma e la Spagna e il vantaggio di girare un film in ordine cronologico
Parlando di riconoscenza nei confronti dei maestri, chiarendo i riferimenti cinefili che hanno accompagnato la lavorazione di El Paraíso, il primo nome che Enrico Maria Artale fa è americano. “Il nume tutelare è John Cassavetes, anche perché quello è un cinema che, mi sento di dire, conosco a fondo. Penso alla relazione tra Peter Falk e Gena Rowlands in A Woman Under The Influence (Una Moglie, 1974 – ndr); spero di essere riuscito a riprodurre qualcosa di quella imprevedibilità e di quella complessità. Apprezzo i registi che puntano su emozioni forti e scelgono atmosfere che alludono al genere. Derek Cianfrance, per esempio, con Blue Valentine e la serie Un volto, due destini – I Know This Much Is True”. C’è anche un altro grande riferimento, che lo tocca molto da vicino. “In questo momento sto lavorando alla serie tratta da Il Profeta, quindi dico Jacques Audiard. Lui continua a spingere su elementi di genere, mantenendo un forte rapporto con il classicismo (sono cresciuto con il western) e esprimendo un’intensità emotiva forte. È la vita che è fatta così”.
Un film in musica. L’architettura sonora è complessa, anche se un fondo omogeneo c’è, spiega Enrico Maria Artale. La base è “salsa colombiana anni ’70”. Non salsa e basta, però, “ma salsa caleña, nata in Colombia nella regione di Cali, appunto, ma anche a Cuba. A dimostrazione, anche qui, di un’identità mista. Quelli che ascoltate nel film sono dei classici. Alcuni molto costosi da ottenere, ma fa tutto parte della playlist emotiva del personaggio. Li abbiamo trovati dopo un grande lavoro di ricerca, indispensabile per creare la giusta atmosfera”. La particolarità dei brani è che “sono ballabili, anche se nei testi sono tragici: si parla di morte della madre, di malattia. Da quelle parti li ascoltano e intanto ballano. Una cosa molto romana”.
La pensa così anche Edoardo Pesce, che ci ricorda che “in questo periodo va forte la musica napoletana che parla perlopiù d’amore ma, se ci pensate bene, la canzone romana ha molto a che fare con la morte. In genere, ci sono due/tre morti per pezzo”. C’è una certa affinità tra il senso della vita latinoamericano e la romanità. Per Enrico Maria Artale “la romanità, la guasconeria, è dolente”. La lingua dei protagonisti è un mix di romano e spagnolo. “D’altronde, dicevo sul set, il romano è simile allo spagnolo: odiame, mi’madre. Madre e figlio parlano la loro lingua, che è un ibrido e spesso non si capisce cos’è che dicono. Il personaggio di Gabriel Montesi è l’unico che sa dialogarci. Anche lui, ispirato a persone che ho incontrato”.
El Paraíso è girato (per la parte italiana) all’Isola Sacra, a due passi dalla foce del Tevere. La casa “è una vera casa, l’abbiamo svuotata e ricostruita” spiega Edoardo Pesce. “Il proprietario” continua Enrico Maria Artale “ha continuato a viverci mentre giravamo, buttando giù pareti e intervenendo come fosse un teatro di posa. Era il guardiano del set, casa sua”. Un elemento di originalità del film è che è girato in ordine cronologico. Una soluzione che i produttori guardano con una certa diffidenza, per via dei costi. Ma a Enrico Maria Artale serviva, ecco perché. “La scena era quella in cui Edoardo e la ragazza vanno la sera a bere. Ci sono questi ragazzi che arrivano in macchina. Bene, erano un po’ intimiditi, non sapevano che fare. A un certo punto un ragazzo se ne esce con quest’idea del bigliettino sentimentale da consegnare a Maria e la cosa mi piace. Torno a casa e comincio a ragionarci sopra. Nella scena successiva era previsto che Edoardo e la ragazza tornassero a casa e lui le prestava la sua giacca. Niente di più. Invece ora c’è tutto questo dialogo legato al bigliettino e alla traduzione che Edoardo ne fa. Questo gioco improvvisato non avremmo mai potuto averlo, se avessimo girato in un altro modo”.