El Paraíso: recensione del film con Edoardo Pesce
Edoardo Pesce recita e fornisce il soggetto, Enrico Maria Artale scrive la sceneggiatura e dirige El Paraíso, la storia del legame fortissimo e un po' soffocante tra una madre e un figlio. Premiato a Venezia 2023, in sala il 6 giugno 2024.
Il ballo è la lingua dell’anima? Se diamo retta a El Paraíso, il film diretto (e scritto) da Enrico Maria Artale – Il terzo tempo (2013) e in tv Romulus (2020) – è proprio così. Nulla di particolarmente spiazzante nella considerazione, il ballo è sul serio la modalità espressiva dell’intimità che non si svela altrimenti, lo sa il film e a maggior ragione il suo regista. Ma non è la novità fine a se stessa a contare; il film affida al ballo, al ritmo sensuale (venato di malinconia e morte) della salsa colombiana il compito di raccontarci due o tre cose interessanti sui protagonisti. Con Edoardo Pesce (suo anche il soggetto), Margarita Rosa De Francisco, Maria Del Rosario e Gabriel Montesi. Si parla del rapporto intenso tra una madre e un figlio – per il regista, un modo di razionalizzare il suo vissuto – di origine e d’identità. Ogni volta che il film sembra puntare verso una direzione ben precisa, c’è una sterzata che ci allontana dal perimetro del prevedibile, dello stereotipo, per portarci in un terreno “altro”. Meno vicino al romanzo criminale puro, non così sentimentale e romantico come potrebbe sembrare; più doloroso e complesso. Soprattutto, più vero.
A Venezia 2023, sezione Orizzonti, El Paraíso vince il premio per la miglior sceneggiatura e per la miglior interpretazione femminile (De Francisco). Prodotto da Ascent Film, Young Films, Rai Cinema, in sala dal 6 giugno 2024 per I Wonder Distribution. Tanto tempo dopo il Festival. Forse troppo.
El Paraíso: la nuova arrivata sconvolge il rapporto tra una madre e un figlio
A Fiumicino, a due passi dalla foce del Tevere, c’è tutto quello di cui hanno bisogno Julio Cesar (Edoardo Pesce) e sua madre (Margarita Rosa De Francisco) per consumare un intensissimo, morboso e commovente rapporto. Una casetta in periferia, una sala da ballo dove il figlio accompagna la madre a ballare. Lei è un’espatriata colombiana e Julio del suo passato sa veramente poco, solo quello che gli ha raccontato e lui ovviamente si fida, non c’è motivo per il contrario. El Paraíso non è soltanto il titolo del film, è anche il nome del posto, in Colombia, dove la donna è nata e in cui a un certo punto Julio andrà a cercare una risposta. Su di sé, sulla madre, sulla sua identità.
Il cuore del film è il rapporto tra una madre e suo figlio. Il film prova a esplorarlo senza nascondersi niente. Non concentrandosi solo sugli aspetti luminosi, sull’amore disinteressato e la vicinanza, ma interessandosi anche al senso di soffocamento (causato da) e al bisogno di svincolarsi dall’abbraccio materno per cercare la propria strada. La madre non sembra cercare niente più di quello che ha; è impetuosa, incline al melodramma, ma il suo senso della vita e dei sentimenti è maturo come e più del figlio, che vorrebbe emanciparsi ma non sa come fare. Un giorno, nella vita dei protagonisti arriva l’imprevisto.
Julio e sua madre “collaborano” con lo spacciatore del posto (Gabriel Montesi) e accolgono in casa i “muli”, i corrieri della droga che arrivano dal Sud America con la roba pronta per essere tagliata. Il film allude, nei toni, nelle atmosfere, a tanto cinema italiano contemporaneo, sembra accennare l’ennesima variazione sul tema “romanzo criminale” ma per fortuna sterza, che le priorità sono altre e c’è una storia più interessante da raccontare. Ines (Maria Del Rosario) è la sorella del mulo alla sua prima esperienza, ha dovuto sostituire il fratello all’ultimo minuto e il suo arrivo è una bomba a mano. Sconvolge la vita di Julio, che con lei sogna una vita diversa. E quella di sua madre, che si sente tradita e ha paura di essere lasciata sola. Di quello che seguirà è meglio non spoilerare troppo. Basti dire che la vita di Julio cambierà radicalmente. Un viaggio tanto necessario quanto doloroso lo porterà in Colombia. Per ballare, con sua madre, in modo del tutto imprevisto, un ballo diverso. Finalmente a casa. Finalmente alle origini di tutto quello che per lui è importante.
Un rapporto problematico e necessario, raccontato da un film scritto e girato in maniera intelligente
Non è semplicemente questione – semplicemente non è l’avverbio più corretto, ma va bene così – di indagare una relazione simbiotica, morbosa e necessaria. Non si ferma sulla porta, non si lascia intimidire dallo spessore e la complessità del grande tema, Enrico Maria Artale. Il suo El Paraíso è la storia di una madre e un figlio che misurano la tenacia del loro rapporto e il bisogno di libertà, di evasione (soprattutto lui, lei ha capito come stanno davvero le cose), raccontata con un’attenzione al dettaglio – narrativo, figurativo – apprezzabile per la precisione, il rigore e la (felice) pignoleria. Sta a cuore, al regista romano, di rendere tridimensionale la vita di Julio e sua madre, costruendo per loro un intero mondo in un pugno di metri quadrati alla periferia di Fiumicino. Tagliando fuori il resto e giocando con le mode e gli oggetti, al punto che la storia potrebbe appartenere al nostro e chissà a quanti altri presenti, perché è bene non intaccarne il respiro universale.
Il film lavora sul linguaggio e lo scompone, mostrandone la densità e gli strati, tanti, di cui è composto: c’è il linguaggio convenzionale, le parole ipocrite e parziali ma comunque necessarie, il romano spagnoleggiante che esiste solo in e per loro due. C’è la gestualità, a volte trattenuta, a volte no. C’è la forza comunicativa dei silenzi, il vuoto dentro che va colmato. C’è il ballo, la sublimazione delle parole, dei silenzi e dell’azione. Nel commovente, lacerante – e difficile da raccontare, perché si finirebbe per dire più del necessario – ballo finale, che lo porta mille miglia lontano da casa, in un localino colombiano, Julio trova qualcosa. Se ne era andato cercando un senso, un’origine, un’identità. Il film gioca con intelligenza con le aspettative dello spettatore e regala al protagonista un finale, lieto e fallimentare, ambiguo e preciso come la vita. El Paraíso non cerca scappatoie o verità banalmente consolatorie; è un film dal respiro grande, anche se la macchina da presa indaga un mondo piccolo e chiuso. Non è perfetto, ma ha cura di darsi una forma e di costruire il suo universo con lucidità e una passione lodevole.
El Paraíso: conclusione e valutazione
Alla base di ogni relazione – vale anche per la madre e il figlio raccontati dal film – c’è un vuoto da riempire. Quello che conta, con El Paraíso, è come Enrico Maria Artale decide di risolvere la partita e qui sta la gratificazione di questo (non facile, non superficiale, intenso) passo a due cinematografico. La volontà è di non fermarsi davanti allo stereotipo ma anzi, di prenderlo un po’ in contropiede, girandoci attorno e scavandolo dall’interno. Edoardo Pesce, per come siamo abituati a conoscerlo, è fisicità imponente e un certo grado di ambiguità morale: qui un bel mix di bene e male, ma la sua intensità è trattenuta e le verità affidate al non detto, con una malinconia e una dolcezza inedite a colorarne l’interpretazione. Margarita Rosa De Francisco è una madre esuberante e incline al dramma, ma la recitazione sopra le righe non è un manifesto di cinema urlato e autoreferenziale; il melodramma ha un fondo di lucidità dolorosa e ragionata.
E se il film allude al romanzo criminale con la caratterizzazione di Gabriel Montesi, se evoca la possibilità di un amore consolatorio e riparatore per Julio nell’incontro fortuito con Maria Del Rosario, non si lascia ingabbiare dal luogo comune: cerca di essere altro, qualcosa di più profondo e spiazzante. A conti fatti, per il coraggio e l’intelligenza della proposta, El Paraíso meritava senza dubbio di uscire in sala, certo non a nove (nove) mesi dal passaggio con premi a Venezia 2023. Il premio serve, per la visibilità e per lanciare (o consolidare) una carriera; vanificarne i benefici, non è il massimo. Con il massimo rispetto per le strategie produttive e distributive – perché c’è chi fa il cinema e chi ne scrive e basta e bisogna conoscere la differenza – e con l’augurio che il tour promozionale in sala di regista e cast aiuti il film a trovare il suo pubblico – si dice così – El Paraíso meritava una possibilità diversa. Spetta alle sale smentire la fosca previsione.