Marco Palvetti al Cinema e Ambiente Avezzano: “I festival dovrebbero sempre sorgere in territori come questo”
L'attore si è raccontato alla serata di chiusura della 9ª edizione, durante la quale ha ottenuto un riconoscimento
Laddove il cinema racconta l’ambiente, l’attore incarna il necessario rapporto di coesistenza che lega la natura e l’essere umano e Marco Palvetti, premiato alla chiusura di Cinema e Ambiente Avezzano 2024 come miglior interprete della passata edizione, ce ne ha dato dimostrazione parlando con noi di questo suo ruolo e di quanto si senta strettamente connesso ai propositi e alle tematiche affrontate dal festival abruzzese. L’interprete classe 1988, noto ai più per il ruolo di Don Salvatore Conte in Gomorra – La serie e negli ultimi anni impegnato sui set di Unwanted, de Il commissario Ricciardi e del biopic Il caso Pantani – L’omicidio di un campione, è stato riconosciuto del premio come Miglior Attore per il cortometraggio diretto da Enrico Poli, Wind Day, opera che ci ha dato modo di approfondire molti degli argomenti che, per tutta la durata del festival, hanno trovato lo spazio per essere discussi e raccontati.
Dal cinema all’ambiente, dall’ambiente di nuovo al cinema, Marco Palvetti si è mostrato, tanto da interprete quanto da persona appassionata di corse in montagna, in tutta la sua imprescindibile interconnessione con la parte più primordiale e naturale di sé, come portavoce di quell’incontro tra l’arte ed il territorio che Avezzano, da 9 edizioni a questa parte, costantemente ricerca.
Marco Palvetti e Avezzano: da Wind Day al rapporto con il territorio
Ti trovi oggi qua, a Cinema e Ambiente Avezzano, per ritirate il premio come miglior attore protagonista della passata edizione, per Wind Day, di Enrico Poli. Parlaci di questo progetto.
“È un cortometraggio che tratta le difficoltà che ancora oggi si vivono nelle zone di Taranto, attorno all’Ilva, e che vuole andare a scandagliare quell’incapacità di reazione, propria di chi ancora abita e lavora in quegli ambienti, rispetto a situazioni e contesti dichiaratamente deleteri per loro. Gli esempi potrebbero essere molteplici ma, in questo caso specifico, si parla di polveri e di una difficoltà ambientale e climatica di cui solitamente l’essere umano, pur tendendo a cautelare sé stesso, non se ne preoccupa, perché concentrato su differenti priorità.
Qui viene raccontata la scoperta di questa difficoltà, ma solo dopo la morte; noi vediamo un personaggio già morto prendere coscienza di una cosa della quale non si era mai reso conto, durante la propria vita. Questo viene espresso anche attraverso paesaggi che, all’interno del racconto, sono metafisici e appartengono all’ambito della morte ma, allo stesso tempo, sono paesaggi reali, che tutt’oggi si ritrovano”.
Quale connessione riesci a trovare tra quel territorio ed Avezzano? E qual è il tuo rapporto con queste terre, con l’Abruzzo in generale?
“Parliamo di ambienti diversi, di morfologie diverse, parliamo di mare e parliamo di montagna, alla quale io sono molto legato, ed è forse questo l’aspetto che più mi connette agli ambienti e ai territori di questa zona, al confine tra il Lazio e l’Abruzzo.
La montagna per me è una fortissima metafora di vita, così come lo è il mare, però il fatto che la montagna possa essere in qualche modo conquistata e possa donare un punto di vista diverso, mi affascina molto. Taranto è, invece, una vera e propria perla della Puglia, costretta a portarsi dietro questa cicatrice che viene perfettamente raccontata dal cortometraggio. Il nesso tra le due zone potrebbe essere la provincia, la quale spesso non ci permette di guardare le cose con lucidità, ci tiene intrappolati all’interno della nostra routine.
Il prezzo poi, però, non lo paghiamo solamente noi, ma anche le generazioni che arrivano dopo”.
L’importanza dei festival e il ruolo della provincia
Parlando appunto di provincia e, nello specifico, di questo festival: quanto sono importanti iniziative di questo tipo e quanto importante è che avvengano in luoghi come questo?
“Sono fondamentali. Spesso è facile fare i conti con i grandi festival, che sono vittime di un’idea di mercato e, pertanto, hanno poco di vitale, di genuino. Bisogna partire da una visione e passare da quegli errori in grado di far crescere; perciò, è giusto che i festival siano nelle mani dei giovani e che non stiano, invece, nelle mani del mercato.
A mio avviso dovrebbero sempre nascere da una terra di mezzo, da una terra di nessuno, non dovrebbero appartenere a qualcuno, perché solo in quel modo noi potremmo avere una reale meritocrazia e ci potrebbe essere una fruibilità maggiore e democratica delle cose.
D’altro canto sono un problema i costi e tutto quello che concerne l’organizzazione di un evento come questo. Quello che a me piace è la freschezza, che però non significa mancanza di attenzione o di qualità”.
Il Festival nasce nel 2016 ed è ora alla sua 9ª edizione. Quanto credi siano cambiati, in questi anni, l’attenzione e l’impegno generale nei confronti delle tematiche ambientali?
“A mio avviso anche tutto quello che riguarda l’ambiente è vittima di processi di mercato; oggi tutto viene sottolineato, a tutto viene data importanza, ma solo quando c’è già una carta pronta per creare un nuovo mercato, altrimenti è difficile che si dica qualcosa. E quindi noi perdiamo il contatto con la natura e con la nostra essenza, perché io credo che, privati della natura, perderemmo la maggior parte delle nostre sensazioni primordiali: l’emotività, il sesso, la possibilità di rapportarci con gli altri, l’autoconoscenza, tutto ciò che in qualche modo passa attraverso la religione, il rito, l’arte. Ecco che poi, perdendo questa linfa, tutto quello che ha a che fare con l’ipertecnologia, la velocità della produzione, la velocità del mercato, il consumismo, raggiunge livelli troppo alti, e quindi, più andiamo avanti più, facendo finta di niente, faticheremo a tornare indietro.
Adesso cominciano a porsi dei problemi su delle tematiche che ancora non sono in essere e, così facendo, non vanno a risolverli ma contribuiscono, invece, a crearli.
Piuttosto, credo che la sensibilizzazione debba passare attraverso un ritorno alla propria presenza in un paesaggio del tutto naturale. La natura è uno dei pilastri della nostra esistenza. Nel momento in cui annulliamo questa nostra presenza all’interno di essa, perdiamo il contatto con noi stessi, e di noi rimane soltanto un aspetto consumistico.
C’è una cura giapponese, chiamata Shinrin-Yoku, che passa appunto dal contatto tra l’uomo e la natura, riguarda lo scambio fisico che avviene con gli alberi, con le foglie e con il bosco e cura la depressione, ma avvicinarci a questo ordine di idee, in un contesto allopatico come il nostro, è molto difficile perché non è utile al mercato”.
Marco Palvetti a contatto con la natura
Ma quindi tu, personalmente, questo contatto con la natura quando e quanto lo senti? Parlavi prima di un particolare legame con la montagna, esiste da sempre?
“Io credo – e questa è una cosa magica – che non ci sia sempre logica rispetto agli avvenimenti della vita, ma alcune cose vanno ad incatenarsi e a portati sulla strada giusta.
Io ricerco la natura ogni giorno, la cerco proprio dal punto di vista chimico, perché a un certo punto della mia vita mi sono chiesto se, pur considerata la diversità degli esseri umani, per la quale ognuno di noi tende a qualcosa di diverso, esista effettivamente un elemento in grado di unirci tutti. Attraverso la natura, la spiritualità e la ricerca di una comprensione intrinseca di quelle che sono le nostre capacità intellettive e di pensiero, ho compreso quanto ci siano delle tematiche dalle quali noi non possiamo scappare, delle quali non possiamo fare a meno, altrimenti perderemmo la nostra umanità. La natura stessa è una di queste.
Io sento la necessità di ricercare un benessere vitale, un benessere appunto chimico, quello stesso benessere che alcuni ricercano con le droghe, senza rendersi contro che le droghe più potenti sono quelle che riusciamo a produrre col nostro corpo, e che ulteriormente si moltiplicano se prodotte a contatto con la natura.
Io avverto tutto questo con la corsa in montagna, con lo spingersi oltre i propri limiti, che è fondamentale per riscoprire l’ambiente e per riscoprire la propria naturalità. Non basta più andare in un giardino, la natura va vissuta, ricercata nel quotidiano, ma il problema è che più noi andiamo avanti, più ci disumanizziamo ed aumenta il divario tra l’essere umano e ciò che gli sta attorno”.
Il ruolo del cinema, le difficoltà dell’interpretariato e le priorità dell’essere umano
In che modo il cinema ha la possibilità di aiutare questa ricerca?
“Prima allargherei il discorso all’arte in generale la quale, in merito a questa ricerca e a questa necessita, ritengo abbia una collocazione fondamentale: all’interno della natura esiste uno spazio proprio dell’espressione artistica, che è intrinseco in essa in quanto la natura è creatrice.
Riguardo al cinema nello specifico, invece, ritengo abbia la capacità di mettere assieme, di esprimere più aspetti artistici; ha una responsabilità importante perché può effettivamente riportare l’immagine che non vediamo, il suono che non udiamo ed è in grado di immortalare quello che è reale, senza bisogno di un codice specifico. Poi c’è anche una responsabilità di tipo documentaristico, la responsabilità di riportare effettivamente ciò che avviene; questo può anche essere raccontato a teatro, in un libro ma chiaramente l’immagine, nell’epoca dell’immagine, possiede una maggior forza”.
E il tuo lavoro d’attore come si inserisce in questo discorso?
“Fare l’attore è come stare sulle montagne russe: ci sono momenti in cui i lavori ed altri in cui fai più fatica ma lì, in ogni spazio, si innestano le necessità e le priorità dell’essere umano. Non bisogna farsi trasportare da quelli che sono i sistemi di mercato, perché seguono delle leggi che non sono naturali, specialmente in ambienti tutt’altro che meritocratici, dove non viene premiato ciò che merita, ma ciò che ha più visibilità, ciò che è maggiormente virale; ed ecco che nella ricerca di queste priorità, il porto a cui bisogna sempre tornare è la natura, lì c’è l’essenza della vita, ci sono leggi che non cadranno mai, quelle che ci hanno generato. Non potremmo mai rinunciare, per esempio, alla nostra respirazione ed il modo migliore per farlo è stando in un ambiente che effettivamente respira e che ci permetta di entrare in contatto con le materie che ci danno la vita. Possono sembrare discorsi estremamente banali ma quando si perdono questi principi allora si arriva ad una forma di qualunquismo per cui anche il giovane pensa di non poter cambiare.
Bisogna recuperare quel senso d’appartenenza con la natura e questo lo si può fare solamente vivendola”.