Niccolò Senni: “La recitazione è una divertente responsabilità”
L’intervista all’attore romano, realizzata in occasione della kermesse palermitana On Air – Season 01, dove ha presentato il cortometraggio Paracadute.
Tra i protagonisti della tre giorni palermitana di On Air – Season 01, la manifestazione organizzata e diretta da Simona Gobbi in sinergia con la Fondazione Federico II e il contributo di Marlù con l’intento di unire il mondo delle serie TV e del cinema con tematiche sociali, c’era anche uno degli attori più versatili e talentuosi del panorama nostrano. Si tratta di Niccolò Senni, enfant prodige che quattordicenne venne scelto da Francesca Archibugi per il suo L’albero delle pere per interpretare il giovane Siddharta al fianco di colleghi del calibro di Valeria Golino e Sergio Rubini. Ruolo, questo, grazie al quale si aggiudicò il Premio Mastroianni per miglior attore esordiente alla Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica di Venezia nel 1998.
Da quel momento il suo percorso nel mondo della recitazione è stato un crescendo che lo ha visto prendere parte a progetti diversissimi per il grande e piccolo schermo anche all’estero tra cui The Young Messiah, The Equalizer 3 – Senza tregua, Trust, Sanctuary, Parlement e The Palace. Recentemente lo abbiamo ammirato nei panni di Enrico Fermi nella fiction Rai, Marconi – L’uomo che ha connesso il mondo. Lo abbiamo incontrato nel corso della seconda giornata della kermesse siciliana a margine della presentazione del cortometraggio sul tema del bullismo dal titolo Paracadute, del quale è uno degli interpreti. Incontro andato in scena nella splendida cornice di uno degli immensi saloni del Grand Hotel et des Palmes, laddove in una one-to-one abbiamo potuto ripercorrere la sua pluri-decennale carriera e parlare del suo modo di vivere il mestiere dell’attore.
La nostra intervista all’attore romano Niccolò Senni, tra gli ospiti della kermesse palermitana On Air – Season 01
Dopo il successo e i consensi ottenuti con il suo film d’esordio, L’albero delle pere, ha mai avuto il timore che il suo percorso di attore potesse in qualche modo essere indirizzato verso un certo tipo di ruolo?
“Diversamente da quei colleghi che sono saliti alla ribalta grazie a un personaggio divenuto iconico, a me non è successo perché il primo film al quale ho preso parte, il già citato L’albero delle pere, è stato visto e apprezzato principalmente dagli addetti ai lavori. Il ché non mi ha portato negli anni successivi ad essere identificato dal pubblico con la figura che ho interpretato all’epoca, ossia il giovane Siddharta. Nel mio caso sono stato molto fortunato poiché ho avuto la possibilità di spaziare tra generi, registri e modalità produttive differenti, passando senza soluzione di continuità tra un cinema più commerciale come quello delle commedie natalizie a un cinema più autoriale di registi quali Francesca Archibugi, Liliana Cavani o Ermanno Olmi. Di conseguenza non ho mai corso il pericolo di rimanere ingabbiato in una certa tipologia di ruolo. Ad oggi L’albero delle pere è stato il primo e unico film che ho fatto da protagonista. Dopo purtroppo non è più accaduto, ma con i piedi ben piantati per terra, la stessa indole e il medesimo approccio appassionato al lavoro del quattordicenne dell’epoca sono riuscito a portare avanti con gioia, gratitudine ed entusiasmo, un percorso artistico del quale vado fiero e che mi ha dato moltissime soddisfazioni. Ci sono quei colleghi che sin da piccoli hanno ricevuto la chiamata divina per la recitazione, fatto tanto teatro e studiato in accademie, a differenza di me che invece la professione dell’attore l’ha fatta sua attraverso una formazione piuttosto eterogenea maturata direttamente sul campo. Ho frequentato il DAMS e studiato sceneggiatura all’Università, per il resto le cose più importanti le ho imparate sul set. Le esperienze negli anni mi hanno consentito di conoscere meglio i trucchi del mestiere e di diventare ciò che sono”.
C’è un momento preciso in cui ha smesso di fare l’attore ed è diventato un attore?
“Sento di appartenere a una fetta di professionisti del mestiere molto privilegiata, quella che ci campa recitando. Cosa per nulla scontata al contrario di quello che si possa pensare, ossia che tutti gli attori sono dei fanta-milionari che fanno la bella vita. La realtà è un’altra. Quando ho esordito con L’albero delle pere, per me il cinema era e recitare erano un piano B. Poi lentamente sono diventati quello A. Penso che sia stato l’arrivo dell’indipendenza economica a fare sì che io potessi dire di essere un attore a tutti gli effetti. Tuttavia, forse per i cliché associati al mestiere, ancora tremo tutte le volte che qualcuno che non mi conosce mi chiede che lavoro faccio e devo rispondere: l’attore. E allora dico che faccio il dentista [sorride]”.
Niccolò Senni: “Mi piacciono i personaggi non tagliati con l’accetta, dai contorni sfumati, che lasciano spazio alla fantasia“
Le scelte professionali prese in tutti questi anni ritiene siano state di testa o di pancia?
“In realtà il mio è un cocktail a base di testa, pancia e agenzia che insieme hanno fatto in modo che io riuscissi a salire su tutti i treni possibili. Dico questo perché il primo film risale al 1997, poi sono andato a vivere all’estero e quando sono tornato in Italia nel 2004 sono entrato a fare parte di un’agenzia appena nata chiamata Moviement. Da allora non ho mai cambiato e il mio cammino professionale è andato avanti con la stessa agente, Tiziana Silvaggi, che insieme a Francesca Archibugi è la persona alla quale devo di più. Per il fatto che ho sempre avuto poca stima nei confronti delle mie skills mi sono affidato alle sue scelte. Raramente ci siamo trovati in disaccordo. Il mio è stato un affidarmi completamente, perché mi fido molto più delle sue scelte che delle mie. E la fortuna di avere tra i mie talenti il conoscere bene le lingue ha fatto sì che avessi un ventaglio più ampio di scelte di produzioni alle quali partecipare”.
Che tipo di personaggio le piace e le piacerebbe interpretare?
“Ormai mi sono arreso al fatto che l’eroe romantico o un bello e dannato non li potrò mai fare. Di contro la fortuna di poter caratterizzare i personaggi e la versatilità mi consentono di interpretare dal collega d’ufficio sfigato al serial killer con le teste delle sue vittime nascoste nell’armadio. Ma in generale mi piacciono quei personaggi non tagliati con l’accetta, dai contorni sfumati e non ben delineati, che non assolvono necessariamente a un compito preciso di buono o di cattivo. Insomma adoro quelle figure sulle quali si può fantasticare”.
Niccolò Senni: “Il progetto che mi è rimasto più nel cuore è Torneranno i prati. Quello che invece non ha avuto il successo sperato è Trust“
Qual è il progetto al quale ha preso parte che le è rimasto più nel cuore e perché?
“L’opera che più di ogni altra mi ha lasciato qualcosa di profondo e indimenticabile è senza dubbio Torneranno i prati di Ermanno Olmi, che abbiamo girato sull’altopiano di Asiago nel 2015 in occasione del centenario della Prima Guerra Mondiale. Era inverno, faceva freddissimo e tutto era coperto di neve. Quella è stata per me un’esperienza umana e professionale incredibile. Fino a quel momento avevo un approccio un po’ distaccato nei confronti della recitazione e pensava che bastasse avere la memoria ed essere puntuali che al resto ci pensava la faccia. Ma tutto questo non funzionava con un regista come Olmi, un persona che ti scavava dentro con severità e che non potevi ingannare o fregare con degli escamotage. Saranno state le temperature, la montagna, la grandissima fatica, il trucco pesante e le divise che ti pizzicavano addosso ad avere portato il livello di immedesimazione a un livello altissimo. Ovviamente non siamo arrivati a sentire ciò che hanno provato quei poveri giovani soldati nelle trincee, ma abbiamo toccato con mano le condizioni proibitive e le difficoltà che si sono trovati ad affrontare. Quelle difficoltà hanno reso l’interpretazione più vera e meno performance. È stato qualcosa al limite del sovrannaturale e fortemente spirituale che non riesco ancora oggi a descrivere a parole”.
E quello che è andato al di sotto delle sue potenzialità e che secondo lei ha raccolto meno di quello che meritava?
“Il progetto che avrei voluto ricevesse un maggiore riscontro perché lo reputo molto interessante è Trust, una serie diretta da Danny Boyle sul rapimento di John Paul Getty III, nel quale vestivo i panni di Fifty, il cugino di Primo, il cattivone calabrese interpretato da Luca Marinelli che fu la mente e le braccia dell’operazione. È stato molto stimolante da girare e rappresentava produttivamente parlando la Champions League per chi fa il mio mestiere, con una troupe numerosissima e una grande attenzione e cura da un punto di vista tecnico, del linguaggio e recitativo. Erano le condizioni di lavoro ideali. Purtroppo però la serie non è andata bene e sinceramente non ne capisco le ragioni”.
Niccolò Senni: “Faccio un mestiere che permette di vivere diverse vite, che possono essere all’opposto delle mie“
Quando è chiamato a interpretare personaggi spregevoli come quello di Fifty in Trust, come riesce a sospendere il giudizio nei loro confronti?
“Partiamo dal presupposto che non sei loro, quindi a fine giornata e set si torna alla propria vita e ad essere se stessi. Quindi mi distacco completamente da quello che è, fa e pensa la figura che sono chiamato a interpretare. Poi ci sono stati casi di colleghi che sono stati addirittura stigmatizzati da parte del pubblico per quello che il loro personaggio li ha spinti a fare. Fortunatamente a me non è mai capitato in maniera così eclatante che ha scatenato mediaticamente critiche e polemiche. Nel mio caso si può parlare di qualche personaggio politicamente scorretto e sgradevole tipo Fabio, il paralitico odioso figlio di un Senatore in Boris o del cugino stronzo e cocainomane del Riccardo interpretato da Nicolas Vaporidis in Come tu mi vuoi di Volfango De Biasi. Ma quelli per quanto mi riguarda sono i personaggi più divertenti da fare. Del resto faccio l’unico mestiere che ti permette di vivere diverse vite, che possono essere all’opposto delle mie, anche di figure cattive e invidiose. Io non sento il problema di essere identificato per il ruolo che sono chiamato a ricoprire, al contrario mi piacerebbe perché significa che sono stato particolarmente persuasivo. Poi penso di avere le spalle abbastanza larghe da potermi difendere da eventuali attacchi”.
Ha preso parte a period-drama che hanno raccontato importanti pagine di Storia. In che modo ciò la responsabilizza?
“Le ricostruzioni storiche hanno da un lato la responsabilità di essere verosimili e dall’altro la fortuna di non essere necessariamente delle apologie, ma possono mostrare anche le pagine più oscure della Storia e le parti più brutte dei personaggi. Faccio l’esempio della serie per Amazon Prime, Senza confini di Simon West, sulla spedizione di Magellano, dove interpreto Pigafetta. In quel caso si parlava di Colonialismo e dell’indottrinamento religioso forzato. In tal senso è importante mostrare anche le cose meno belle, oltre alle diverse sfumature ed espressioni dell’essere umano che non è solo bello e bravo”.
Niccolò Senni: “Il lavoro sul testo e di costruzione del personaggio muta di volta in volta sulla base della natura e della stratificazione del progetto“
A proposito di personaggi realmente esistiti o liberamente ispirati, lei ne ha interpretati diversi tra cui il Pierotto di Preferisco il paradiso o l’Enrico Fermi della recente fiction Rai, Marconi – L’uomo che ha connesso il mondo. In questi casi cambiano l’approccio, la preparazione e il modus operandi?
“Personalmente taro la preparazione sulla base di quanto è attinente la sceneggiatura. Se vedo che l’approccio è molto elastico e divulgativo allora cerca di essere più accomodante e non legato storicamente. Al contrario, in ricostruzioni più accurate e attenenti alla realtà come nel caso di Torneranno i prati, per documentarmi ho letto tantissimi libri sulla Grande Guerra. Era necessario più che altro per non dire o fare cose inverosimili che non centrassero nulla con quel periodo. Dunque il lavoro sul testo e di costruzione del personaggio muta di volta in volta sulla base della natura e della stratificazione del progetto”.
E infine cos’è per lei la recitazione?
“È una divertente responsabilità. Divertente perché è un gioco, non a caso l’atto di recitare in inglese si dice play. Responsabilità perché devi essere bravo in quello che fai dato che ci sono tantissime persone nel campo in cui opero che sono in grado di giudicare se svolgo bene o male il mio lavoro”.