Jenny De Nucci: “Sogno una carriera internazionale”
L’intervista all’attrice e influencer Jenny De Nucci, realizzata in occasione della kermesse palermitana On Air – Season 01, dove ha presentato il cortometraggio Paracadute.
On Air – Season 01, la kermesse palermitana organizzata e diretta da Simona Gobbi in sinergia con la Fondazione Federico II e il contributo di Marlù, ha nel suo DNA e nella mission l’intento di unire il mondo delle serie TV e del cinema con tematiche sociali. Il ché ha portato la manifestazione siciliana a trasformarsi in una cornice perfetta dove questo incontro ha trovato terreno fertile, ospitando eventi che ne hanno rispecchiato il modus operandi tra cui la presentazione del cortometraggio Paracadute, incentrato sul tema del bullismo. Tra gli interpreti di questa opera corale figura anche Jenny De Nucci, la talentuosa attrice e influencer di Garbagnate Milanese classe 2000 salita alla ribalta a 16 anni con la partecipazione alla prima edizione del reality show Il Collegio. Appassionata di canto, musica, danza e fotografia, Jenny ha poi spiccato il volo alzando anno dopo anno sempre più l’asticella prendendo parte a importanti progetti per il piccolo e grande schermo sino a compiere i primi passi nell’industria internazionale con un film targato grande N. L’abbiamo incontrata e intervistata proprio nel mezzo di questa entusiasmante scalata, cogliendo l’occasione per rivolgergli delle domande sul suo percorso e sul suo approccio al mestiere di attrice.
La nostra intervista all’attrice e influencer Jenny De Nucci, tra gli ospiti della kermesse palermitana On Air – Season 01
Cosa si è portata dietro in termini di insegnamento dall’esperienza de Il Collegio?
“A livello tecnico mi ha insegnato a lavorare con la macchina da presa attaccata alla faccia dalla mattina alla sera, avvertirne la presenza e riuscire a non guardarla. Quell’esperienza mi è servita ad imparare a sentirla, a interagire fisicamente con essa e di conseguenza a muovermi nello spazio in sua funzione. Mentre da un punto di vista umano il fatto di essere scaraventata a sedici anni in uno spazio circoscritto con una ventina di coetanei, senza cellulare, con la possibilità di avere con loro un dialogo costante e soprattutto non virtuale, mi ha consentito di instaurare dei rapporti veri all’insegna della convivialità”.
L’avere iniziato giovanissima le ha tolto qualcosa per quanto concerne l’adolescenza?
“Tu a sedici anni improvvisamente non sei più un’adolescente e da un giorno all’altro ti ritrovi catapultato nel mondo dei grandi con tutto ciò che ne consegue. Nel mio caso dopo Il Collegio, poco prima di compiere la maggiore età, sono stata scelta per interpretare come protagonista la mia prima serie, ossia Un passo dal cielo 5 Da quel momento le cose sono cambiare e si è cominciato a fare sul serio. A quel punto inizi a capire veramente che per fare il mestiere dell’attrice si devono fare moltissimi sacrifici, per cui più banalmente devi saltare le vacanze estivi per lavorare o il compleanno dell’amica del cuore perché sei sul set o devi fare la memoria”.
Jenny De Nucci: “La recitazione e la terapia mi hanno aiutata ad attraversare momenti difficili e bui, facendomi guardare la situazione in cui mi trovavo da punti di vista diversi“
Come è riuscita ad affrontare l’impatto e le pressioni psicologiche derivanti dall’arrivo del successo senza esserne travolta?
“Ho avuto la fortuna di non avere incontrato quegli squali che davanti a una ragazza di sedici anni che muoveva i primi passi nel mondo dello spettacolo che conta decidono di spremerla come un limone. Conosco tanti giovani colleghi che stanno iniziando adesso ad avere un seguito nell’audiovisivo o sui social che spesso chiedono consigli a me che ci sono già passata su come comportarsi in merito, perché hanno timore di bruciarsi, di finire schiacciati dal peso del successo o ancora peggio di rimanere ingabbiati in contratti assurdi, che non danno loro la possibilità di dire cosa volessero effettivamente fare e comunicare alle persone. Io invece ho incontrato sul mio percorso dei veri professionisti, non soltanto dal punto di vista lavorativo, ma soprattutto da quello umano. Per me questo è un aspetto fondamentale. Non potrei collaborare mai con qualcuno che pensa solo al lato economico e alle entrate che potrebbero avere, mettendo in secondo piano la mia sicurezza piuttosto che il sentirmi a mio agio rispetto al progetto di turno.
A differenza di molte amiche o colleghe ad esempio io solo raramente ho avuto problemi di ipersessualizzazione. In tal senso, le figure che fanno parte del mio staff sono sempre state molto rispettose e attente. Con loro ho potuto sin da subito avere un confronto e la possibilità di dire la mia rispetto alle decisioni da prendere, ma anche su come affrontare determinate situazioni. Per tutto il resto che non riguarda la sfera lavorativa, bensì quella personale o il come vivere sui social, invece, molto importanti sono stati e continuano ad essere gli affetti e il ricorso alla terapia. Quest’ultima mi ha aiutata in più di un’occasione, anche recentemente, ad attraversare momenti difficili e bui, facendomi guardare la situazione in cui mi trovavo da punti di vista diversi e capire che il più delle volte il problema non ero io”.
C’è qualcosa che la recitazione e il mestiere di attrice le ha permesso di scoprire di sé?
“In passato ho fatto i conti con un grande blocco rispetto al pianto. Io non riuscivo ad andare a fondo alle mie emozioni, a toccarle. E questa è stata fonte di lunghe chiacchierata con la mia psicologa. Poi un giorno sul set di Un passo dal cielo ricordo che avevo una scena particolarmente complessa sul piano emotivo e all’improvviso, no so cosa sia successo, sono riuscita a liberare delle lacrime che non piangevo da quattro anni. Solo in quel momento ho capito che potevo arrivare a provare qualcosa di particolarmente intenso, che ero capace di piangere. Probabilmente avevo trovato finalmente la chiave per aprire il cassetto dove quelle lacrime erano rimaste chiuse per tutto quel tempo. Attraverso la terapia e la recitazione ho potuto aprirne tanti altri di questi cassetti. Così facendo sono riuscita a superare ostacoli, paure, insicurezze e blocchi vari che riguardavano tanto il corpo quanto la mente”.
Jenny De Nucci: “Appena metto piede su un set tutti i problemi magicamente svaniscono“
Quindi per lei la recitazione è anche una sorta di arte-terapia?
“Lo è diventata da quando ho iniziato a studiare con un coach americano di nome Bernard Hiller, con il quale ho fatto corsi anche a Los Angeles. Mi sono resa conto che mentre faccio degli esercizi su determinate scene vado a toccare delle corde e dei blocchi che in realtà mi stanno facendo crescere come attrice ma anche come donna ed essere umano. Da questo punto di vista non c’è lavoro più bello di uno che ti mette costantemente davanti allo specchio, facendoti scoprire cose di te che non pensavi ti appartenessero, nel bene o nel male”.
Più in generale che cosa rappresenta?
“Per me è sempre stato un modo per staccare la spina con e da tutto. Appena metto piede nel campo base di un set tutti i problemi magicamente svaniscono. In quel momento sono la persona più felice del mondo”.
Jenny De Nucci e l’importanza delle tematiche sociali
In questi anni ha potuto misurarsi con opere e temi dal peso specifico rilevante. Quanto questo l’ha responsabilizzata e come si è preparata a interpretare storie e personaggi così complessi?
“In primis mi viene alla mente il cortometraggio Happy Birthday di Lorenzo Giovenga nel quale si parlava della sindrome degli Hikikomori, ossia dell’isolamento volontario da parte di quelle persone, nella stragrande maggioranza dei casi giovanissime, che decidono di ritirarsi dalla vita sociale per lunghi periodi, alle volte per anni. Il ché le porta a rinchiudersi nella propria abitazione, evitando qualunque tipo di contatto diretto con il mondo esterno, talvolta anche con i familiari. Per quanto riguarda la preparazione, con la mia insegnante Anna Redi, con la quale collaboro sin dalla mia prima serie, ci siamo messe in contatto con persone affette da questa patologia, ma anche con i loro parenti e amici, per farci raccontare e spiegare tutte quelle che sono le specifiche che non è possibile trovare su internet: dal cosa la innesca a che cosa significa per un genitore comunicare con il proprio figlio che è chiuso in una stanza solo attraverso degli apparate elettronici. Così facendo ho potuto fare mio un tema tanto complesso e interpretare al meglio quello che è il personaggio che il regista ha deciso di affidarmi. Si tratta di un’opera che dalla sua prima apparizione pubblica alla Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica di Venezia non ha mai smesso di girare per festival e rassegne. Ciò è dovuto probabilmente, oltre alle sue qualità, anche al messaggio e ai contenuti che veicolava. Il ché è un bene.
Per quanto concerne invece la responsabilità, in questo come in altri lavori ai quali ho preso parte, me ne sono fatta sicuramente carico proprio in virtù dell’importanza che il trattare certi temi comportava. Penso a film come Prima di andare via di Massimo Cappelli e Phobia di Antonio Abbate, che affrontavano rispettivamente il tema del cancro e della malattia mentale. Lì era importantissimo presentarsi sul set preparati, perché si affrontavano argomenti complessi e delicati che necessitavano di uno studio attento e approfondito, ma anche di un grande rispetto. E questo è un aspetto che non va assolutamente messo in secondo piano”.
Cosa immagina e spera per un futuro upgrade?
“Ho avuto la possibilità di studiare e imparare diverse lingue, motivo per cui sogno una carriera internazionale sull’onda di una prima esperienza fatta di recente in un film per Netflix America dal titolo La dolce villa, per la regia di Mark Waters, che tra gli altri ha diretto uno dei miei cult di riferimento, ossia Mean Girls. Spero che arrivino altre opportunità come queste che mi consentano di lavorare al di fuori dei confini nazionali in modo da farmi conoscere anche all’estero”.