Anna, intervista al regista Marco Amenta: “Quello che offro con i miei film sono delle esperienze emozionali”
L’intervista al regista siciliano Marco Amenta, nelle sale dal 13 giugno 2024 con il suo nuovo film dal titolo Anna, una toccante e intensa storia di libertà, emancipazione femminile e lotta contro il potere in terra sarda.
Nel mezzo del fortunato percorso festivaliero iniziato nell’agosto del 2023 alle Giornate degli Autori veneziane, proseguito nei mesi successivi in numerose e importanti kermesse internazionali come quelle di Monaco, Houston, Rio de Janeiro e Montpellier, per Anna di Marco Amenta è giunto il momento di affacciarsi anche nelle sale nostrane, dove è approdata il 13 giugno 2024 con Fandango. E quale occasione migliore se non questa per intervistare il regista palermitano, qui al suo terzo lungometraggio di finzione dopo La siciliana ribelle e Tra le onde e una serie di pluripremiati documentati tra cui Il fantasma di Corleone e Magic Island. Nella sua ultima fatica dietro la macchina da presa racconta la storia di una ragazza sarda che ama pascolare le sue pecore e vendere il formaggio, almeno fino a quando un colosso del cemento non tenta di spodestarla, con l’intento di costruire un albergo sulla sua terra di cui però pare non abbia il certificato di proprietà. Quale sarà l’esito della battaglia legale tra le due parti lo lasciamo alla visione, nel frattempo abbiamo approfittato per rivolgergli alcune domande sulla genesi del film, sulla sua lavorazione, sullo stile utilizzato e sulle tematiche affrontate.
La nostra intervista al regista Marco Amenta, realizzata in occasione dell’uscita nelle sale del suo terzo lungometraggio dal titolo Anna
Ci racconta il percorso e la genesi di Anna?
“Lo spunto nasce da una storia realmente accaduta in Sardegna qualche tempo fa della quale si è parlato molto, letta sui giornali, che aveva come protagonista un anziano pastore che ha portato avanti una battaglia legale contro un gruppo cementizio molto importante. Si trattava di una vicenda molto bella e appassionante alla Davide contro Golia, ma che con il co-sceneggiatore Niccolò Stazzi abbiamo voluto declinare al femminile sull’onda di un’altra esperienza fatta insieme in un mio precedente lavoro dal titolo The Lone Girl. In quel documentario ho raccontato la storia di Roberta, l’ultima cowboy italiana, un mestiere arcaico e prettamente maschile, ereditato dal padre scomparso troppo presto, che in mezzo a mille difficoltà prova a sopravvivere in mezzo alla natura selvaggia. Quindi abbiamo fatto un misto tra la storia dell’anziano pastore e quella di Roberta, liberamente ispirandoci a entrambe”.
In Anna, così come nei lavori precedenti, affronta tematiche importanti e complesse, che sono ricorrenti nel suo cinema come l’emancipazione femminile o la lotta contro i poteri forti. Cosa la attira in particolare di questi temi al punto da esserci tornato a più riprese?
“Di base non voglio mai fare film a tema, perché secondo me un film non deve essere didattico o didascalico. Ma al di là di questo ci sono sicuramente tematiche dal peso specifico rilevante che ricorrono nelle mie opere come il senso di giustizia, la resistenza e la ribellione, che è possibile ritrovare anche in Anna, in particolare la ricerca della libertà da parte del personaggio principale. La protagonista non è ideologica come una Greta Thunberg che cerca di difendere l’ambiente, piuttosto combatte in maniera viscerale in nome della sua di libertà. È come un animale ferito, ma non è ideologica, tantomeno voglio esserlo io. Poi è possibile trovare anche anche temi come la lotta per l’emancipazione femminile e la salvaguardia dell’ambiente, ma questi non devono prendere il sopravvento sulla storia e sui personaggi, perché la cosa fondamentale per me e alla quale tengo molto è la tensione e la suspence nei confronti di ciò che accade nel corso del racconto, con queste che devono tenere incollati gli spettatori alla poltrona sino alla fine”.
Marco Amenta: “Mi piacciano i personaggi borderline, mai buonisti, con un lato dark, un po’ ostici che sembrano respingenti e diventano eroi loro malgrado“
Nuovamente una storia al femminile dopo La siciliana ribelle e The Lone Girl. Nel caso di Anna ha sostituito la figura maschile della storia realmente accaduta con quella di una donna. Cosa c’è dietro questa decisione di puntare principalmente la lente della sua macchina da presa verso questo universo?
“In generale mi piacciano molto i personaggi borderline, mai buonisti, con un lato dark, un po’ ostici che sembrano respingenti e diventano eroi loro malgrado, portando avanti le battaglie grazie alle proprie particolarità, nonostante difetti e problematiche varie. Le donne e di conseguenza i personaggi femminili li reputo più complessi e di conseguenza più interessanti, mentre quelli maschili sono legati principalmente a una catena di causa-effetto molto classica. E poi c’è il famoso intuito femminile che è sorretto da associazioni più stratificate, ricche e varie rispetto a quelle messe in atto dagli uomini. Trovo che le storie narrate dalle donne siano il frutto di percorsi meno lineari e più imprevedibili rispetto a quelle classiche in tre atti che nella stragrande maggioranza dei casi caratterizza il percorso dell’eroe maschile, che ha dominato il pensiero e la narrazione occidentali per secoli”.
Nelle storie che decide di raccontare, compresa quella di Anna che l’ha portata dalla sua Sicilia alla Sardegna, centrali sono il ruolo della terra e delle radici. In tal senso il suo cinema fugge spesso e prende le distanze dal “Continente”. Come mai?
“Più che dal Continente mi verrebbe da dire dalla città. Se allarghiamo lo spettro dell’analisi ai miei documentari, penso ad esempio a The Lone Girl e Magic Island vediamo che anche in quei casi il racconto si sposta al di fuori delle metropoli: nel primo siamo nella campagna laziale a nord di Roma dove vive e lavora l’ultima cowboy, mentre nel secondo seguo un ragazzo americano di nome Andrea nel suo viaggio da New York a un piccolo paese della Sicilia alla scoperta della figura paterna e delle sue radici. In generale sono molto legato alla natura, al mare e agli elementi primordiali. Lo sono sempre stato e lo sono ancora oggi che sono un sub e pratico immersioni. In più quando ero bambino avevo un nonno che gestiva un cinema in un paesino e aveva anche degli animali. Quindi sin da piccolo ho potuto coltivare un forte attaccamento nei confronti della terra e del mare. E poi c’è un desiderio mio, che forse è anche quello del pubblico di oggi, di volere ascoltare e vedere delle storie che provengono dalla provincia, dalle campagne, dai piccoli centri e non solo dai salotti romani e milanesi. Probabilmente ancor di più con il lockdown c’è stato questo bisogno di allontanarsi e di evasione dai grandi nuclei urbani, che corrisponde pure al gusto di vedere altro e non le solite cose. Inoltre c’è un piacere fisico nell’andare a girare film in questi luoghi fuori dalle città. Nel caso di Anna ho trascorso mesi in Sardegna per preparare le riprese, alzandomi alle sei del mattino con il suono dello scampanellio delle capre in mezzo alla natura incontaminata e devo dire che sono stato benissimo. Del resto l’uomo non è stato creato per vivere in mezzo al cemento armato e all’acciaio, nel frastuono dei rumori metallici e striduli dei mezzi meccanici, ma per stare in mezzo alla natura”.
Marco Amenta: In Anna la macchina da presa trema e pedina la protagonista come se seguisse il battito del suo cuore e il ritmo del suo respiro“
Come ha lavorato nella fase di costruzione della protagonista di Anna?
“A me piace molto la preparazione e questo film abbiamo avuto la possibilità di prepararlo bene, con cura e grande attenzione. Per quanto mi riguarda cerco di mettere nelle condizioni l’attrice di entrare veramente nel personaggio e viva in quella dimensione. E infatti siamo stati a provare tutto il tempo in location, in quell’atmosfera e in mezzo alle pecore, affinché lei si calasse fisicamente e psicologicamente in quella dimensione al punto da sembrare vera e che quasi non recitasse. Al resto ci ha pensato la bravura dell’attrice che ha interpretato la protagonista, ossia Rose Aste, ma anche il lavoro che con il direttore della fotografia Giovanni Lorusso abbiamo fatto con la macchina da presa. Siamo arrivati a un livello di realismo tale che lei si è dimenticata della nostra presenza, come fossimo in un documentario. Sembra tutto vero e rubato, ma nulla lo è perché ogni dettaglio è stato studiato e scelto a tavolino, a cominciare dalla luce. Il tentativo di resa però è che sembri tutto reale e casuale, con la cinepresa che appare sempre in ritardo rispetto al personaggio. Da qui una macchina da presa che trema e pedina la protagonista come se seguisse il battito del suo cuore e il ritmo del suo respiro. Sono come in simbiosi”.
È cambiato qualcosa da un punto di vista tecnico e di linguaggio rispetto ai lavori precedenti?
“Sicuramente c’è un controllo formale della macchina da presa e della regia superiore ai miei precedenti lavori, anche per la possibilità che mi è stata data di prepararlo al meglio. Nel caso di Anna di tempo ne abbiamo avuto a sufficienza per raggiungere l’obiettivo stilistico che mi ero prefissato. E questo è stato possibile anche grazie alla complicità di un direttore della fotografia complice con il quale abbiamo pensato e provato tanto sino a raggiungere una chiave stilistica, personalmente registica, giusta per questo tipo di storia e del quale sono molto soddisfatto. In altri film come La siciliana ribelle ad esempio non ci sono state a mio avviso le premesse per ottenere ciò che stilisticamente volevo veramente. Quello è stato probabilmente un film poco adatto a un esordio, difficile da controllare a causa di una storia preponderante e una narrazione assai invasiva. In Anna invece ho avuto il tempo anche in fase di scrittura per far sì che la narrazione avesse un suo spazio, ma lo avesse pure lo stile. Il cinema è bello e forte quando viene raccontato non solo attraverso le azioni o i dialoghi, ma anche attraverso degli elementi che lo spettatore arriva a percepire a livello inconscio e viscerale, quali il senso dell’inquadratura, la luce, i suoni, i rumori e i colori. Si tratta di tutta una serie di mezzi che mettono nelle condizioni chi fa il mio mestiere di fare scaturire nei fruitori delle emozioni e di comunicare loro dei significati in maniera inconscia e ancora più profonda”.
Marco Amenta: “Quello che cerco di offrire agli spettatori delle mie opere sono delle esperienze emozionali e la possibilità di entrare in altre dimensioni“
Cosa ci teneva che arrivasse di questo film allo spettatore?
“Quello che cerco di offrire agli spettatori delle mie opere sono delle esperienze emozionali e soprattutto la possibilità di entrare non in una sala cinematografica, bensì in un’altra dimensione e viaggiare per quelle due ore in un mondo parallelo, indipendentemente che sia realistico, paradossale o fantascientifico. Cerco a mio modo di restituire al pubblico quel tipo di sensazione che ho provato e mi è rimasta impressa quando facevo il fotoreporter e studiavo a Parigi e alla Cinémathèque française andai a vedere C’era una volta il West. Ricordo che uscii dalla proiezione frastornato, senza ricordare più dove mi trovassi in quel momento. Sergio Leone mi fece viaggiare con la mente ed è quello che intendo quando parlo di trascinare il fruitore da un’altra parte, regalandogli un’esperienza emotiva molto forte”.
C’è qualcosa a suo avviso che caratterizza il suo cinema e il suo essere regista?
“La prima cosa è la passione, oltre all’emozione che provo nel fare cinema. Devo dire che ho una particolarità, non so se altri colleghi ce l’hanno, che anche nelle opere di finzione mi capita di emozionarmi durante le riprese. Nella scena finale del tribunale di Anna, così come in quella de La siciliana ribelle, ricordo di essermi commosso veramente, pur sapendo che ciò al quale stavo assistendo era tutto finto e scritto in sceneggiatura. Fare cinema mi emoziona. E se ti emozioni in primis tu mentre lo fai, allora puoi arrivare ad emozionare gli altri. Questa penso sia una costante che mi permette di non cadere nel mestiere e di scegliere i film che voglio fare, che mi toccano e dicono qualcosa. Libertà che mi è data anche dal collaborare fianco a fianco con mia sorella Simonetta Amenta, con la quale abbiamo una società, la Eurofilm, che è una bravissima produttrice recentemente nominata presidentessa di A.G.I.C.I. (Associazione Generale Industrie Cine-audiovisive Indipendenti). Con lei scegliamo i progetti che ci piacciono, mantenendo una certa libertà e con un approccio quasi artigianale, pur tenendo d’occhio le esigenze e le richieste del mercato”.
Marco Amenta: “La passione per il cinema e le emozioni che provo nel farlo mi permettono di non cadere nel mestiere e di scegliere i film che voglio fare, che mi toccano e dicono qualcosa”
In cosa vede un possibile upgrade per lei e per il suo cinema?
“Personalmente cercherò di continuare ad avere un controllo stilistico e a lavorare ancora di più sulla regia, la confezione, la componente visiva e non solo sulla narrazione, in modo da condurre lo spettatore in dimensioni altre e fargli vivere un ventaglio di emozioni forti e cangianti. E poi punto a raggiungere una poetica personale e innovativa che mi consenta di non ripetermi: da una parte una macchina da presa che agisce e concepisce le immagini in maniera documentaristica, dall’altra una costruzione drammaturgica shakespeariana”.