Ground zero. Self portrait of an ocean abuser: recensione dal Sole Luna Doc 2024

Non vi darà ordini né vi giudicherà, ma vi farà riflettere e anche sorridere! Ground zero. Self portrait of an ocean abuser è uno di quei documentari da vedere, che siate ambientalisti o no.

Pungente, ironico, fotograficamente spettacolare (merito del direttore della fotografia Alberto Mollá) e, senza ombra di dubbio, educativo. Con Ground zero. Self portrait of an ocean abuser, presentato in concorso al Sole Luna Doc Film Festival 2024, il regista David Gaspar Gaspar narra la storia di un maltrattatore di oceani, che poi sarebbe la sua storia, ma anche quella di molti di noi. Lo fa guidandoci in un viaggio fatto di scoperta e di consapevolezza, intarsiato dalle testimonianze di personalità che cercano di sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche ambientali, come la giornalista Irene Baños o Elsa Punset, che si occupa di intelligenza emozionale.

Ground zero. Self portrait of an ocean abuser, il cui titolo originale in lingua spagnola è Zona Cero. Autorretrato de un maltratador de océanos, si srotola lungo il tragitto della vita quotidiana, intersecando la normalissima esistenza dell’autore con la focalizzazione di dettagli a cui spesso non facciamo neanche caso: un bicchiere di plastica che rotola sull’asfalto fino ad approdare nelle acque, i rimasugli di una scarpa, di un dado, di un accendino, di una lattina; scarti quotidiani che vengono ingoiati dall’oceano e, inevitabilmente, dalle specie che in esso vivono e, quindi, anche da noi che spesso dal mare traiamo fonte di nutrimento.
Ma come si fa a cambiare rotta? È troppo tardi per salvare il nostro pianeta? Possiamo davvero fare qualcosa per mutare la sorte della Terra? Il documentario ci porta negli incastri della mente, persino nei meandri della repulsione dovuta a un massiccio protestare nei confronti di tematiche ambientaliste, considerando anche l’ipotesi più veritiera, ovvero il fatto che non tutti e non sempre riusciamo a essere degli impeccabili ambientalisti. Così può darsi che ci lamentiamo dei rifiuti trovati in spiaggia, della carne ingerita dal nostro amico o del palloncino gonfiato per la festa di compleanno di una bambina, ma poi ci piace bere Coca-Cola e di colpo veniamo insultati per questo; potremmo avere la tentazione di mollare, di pensare che non ne valga la pena e che il nostro piccolo gesto non potrà mai salvare il mondo che ci ospita. Non è così!

David Gaspar Gaspar ci spinge a vedere tutto questo da un’altra prospettiva che non parte dal mondo esterno ma da quello interiore, dalla galassia che ognuno di noi si porta dentro e che molto spesso ignora. L’oceano si fa metafora della nostra umanità così complessa e inafferrabile; le onde del mare, viste dall’esterno, ci trasmettono calma e tranquillità, ci rievocano ricordi felici e sereni e ci lasciano pensare che tutto vada bene, che tutto sia al suo posto. Cosa accade però, realmente, sul fondo dell’oceano? Il regista si immerge tra le acque per vedere ciò che in superficie emerge appena, includendoci in un pellegrinaggio che ci lega a doppio filo alla nostra psiche e alla realtà contemporanea; lasciandoci sprofondare in una filosofia che ha senso solo se riusciamo a percepirla con tutti i sensi della nostra umanità.

Non è per l’ambiente, non è per la politica, ma per noi, innanzitutto, che dobbiamo agire nella correttezza, accettando di non essere impeccabili ma di essere a conoscenza dei fatti e il sapere, inevitabilmente, ci obbliga alla consapevolezza, a non essere indifferenti.
Interessante, nel documentario, questo perenne viandare in bilico tra la vastità del mondo e della gente che ci circonda e l’intimità apparentemente controllabile del nostro essere. Sembra una frase fatta, eppure è tremendamente vero: ogni cambiamento parte da un piccolo passo e siamo noi a doverlo compiere, in un percorso in cui il bene che facciamo all’ambiente è solo un riflesso del bene che ci facciamo da soli e del nostro rimetterci in discussione. Cosa diranno gli altri se non mangio più carne? Andrò d’accordo ancora con i miei amici e parenti se inizierò ad assillarli su questioni ambientali? “Non voglio essere quel tipo di persona”, dice David Gaspar Gaspar e in questo sa convincere anche gli scettici. Perché allora spendere 3 mila euro per un documentario sull’impatto delle micro-plastiche? Perché tutti, volente o nolente, abbiamo un debito col mare: qui si sono consumati i nostri ricordi felici, le nostre vacanze, da qui traiamo la vita.

Nella narrazione molta filosofia si inserisce tra un’immagine e l’altra, riallacciandosi a grandi linee (forse inconsapevolmente) al pessimismo storico leopardiano, ovvero all’idea di un legame arcaico più stretto tra uomo e natura, che si sarebbe perso con l’avvento del progresso, rendendoci sempre più distanti dalle altre specie viventi, sempre meno empatici con tutta la vita che ci circonda e alla quale siamo legati.

Ground zero. Self portrait of an ocean abuser: valutazione e conclusione

Ground zero. Self portrait of an ocean abuser potrebbe sintetizzarsi nella frase “Il luogo più disabitato del mondo è il presente”, grazie alla quale percepiamo l’idea stessa di essere incapaci di agire nei termini del qui e ora, nel tempo che ci sfugge e che non chiede ipotesi, supposizioni o programmi ma semplicemente azioni, che siano positive per noi e per gli altri.
Un documentario immersivo e dal finale ironicamente bizzarro, che non giudica, non impartisce ordini né ci fa la paternale. Quello del regista spagnolo è, semplicemente, una riflessione personale che si riflette nell’universale; un libretto d’istruzioni per vivere l’oggi senza dimenticare che c’è sempre un domani.

Regia - 3
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 4
Sonoro - 2.5
Emozione - 3.5

3.3