Immaculate – La prescelta: recensione del film di Michael Mohan
Michael Mohan ritrova Sidney Sweeney, questa volta però niente più voyeurismo erotico, piuttosto l’Italia, il maligno della fede e un cinema feroce che richiama Dario Argento, Pupi Avati, Ken Russell e Lucio Fulci. In sala dall’11 luglio
La grande dote dei registi discontinui è quella di saper emergere dal buio al momento esatto, che coincide con l’identificazione del film più giusto e personale possibile, tanto in termini di coincidenza tematica, quanto temporale. Ne sa qualcosa Michael Mohan, che dopo una lunga carriera nel cortometraggio – particolarmente interessante e coraggioso il suo Ex-Sex – e nel panorama televisivo, approda al lungometraggio con il film probabilmente più virale e chiacchierato del 2021, The Voyeurs, anch’esso interpretato da Sidney Sweeney e disponibile sul catalogo di Amazon Prime Video. Se in quel caso Mohan sembra guardare molto più al celebre passaggio di Il ritratto di Dorian Gray: “Non importa che se ne parli bene o male, l’importante è che se ne parli”, alla sua seconda prova da regista, Immaculate, Mohan rompe le distanze, avvicinandosi sempre più al male, penetrandolo questa volta, senza tuttavia mostrarlo, o forse sì?
Il gotico padano si trasferisce a Roma e ha un nome: Mater Dolorosa
A breve distanza dall’ottimo e sorprendentemente innovativo Omen – L’origine del presagio, diretto da Arkasha Stevenson, che con Immaculate condivide solamente una parziale somiglianza, ecco un altro esempio di cinema americano, ancora una volta focalizzato sul dualismo della fede e ancora una volta ambientato tra le mura cupe e sinistre di un convento o monastero, che dir si voglia, nelle campagne laziali. Se Omen poco si interessa ai luoghi circostanti, Immaculate ne coglie l’aspetto probabilmente più significativo e spaventoso, ricollegandosi alla celebre tagline dell’Alien di Ridley Scott, non è più lo spazio, ma anche nelle campagne nessuno può sentirti urlare.
Cecilia (possiamo definirla la prova di carriera di Sidney Sweeney? Possiamo eccome e finalmente è chiaro, l’escalation di follia vista nella seconda stagione di Euphoria ci ha condotti qui) è una giovane novizia statunitense, che accolta da Padre Sal Tedeschi (Álvaro Morte), raggiunge l’Italia per prendere i voti all’interno del convento rurale che quest’ultimo dirige in compagnia dell’anziano Cardinale Franco Merola (Giorgio Colangeli). Un luogo di fede e terrore, questo il film lo dichiara fin da subito, con il tentativo di fuga di Suor Mary e la macabra punizione che ne consegue. Un luogo di sospetti, sguardi e macabre verità taciute. Il nome dice tutto e anche di più, Mater Dolorosa.
La Quarta Madre di Dario Argento? In qualche modo è così, seppur Michael Mohan e Andrew Lobel, appena dopo aver richiamato l’aspetto fortemente gangsteristico, persecutorio e temibile delle streghe Argentiane, che qui invece divengono suore, scelgano di prestare ancor più attenzione e cura, al riferimento cinematografico meno atteso e per questo sorprendentemente riuscito, ossia il gotico padano di Pupi Avati, oltreché l’inevitabile e doveroso richiamo al Nunsploitation europeo anni ’70. Luoghi sacri, rurali e pacifici, ferocemente trasfigurati fino alla loro resa più crudele, sanguinosa e sinistra.
Un convento che si fa fabbrica del terrore e della paura più concreta e visibile. Basti pensare alle vesti delle suore che compaiono nella notte ai bordi dei letti, per poi svanire, e ancora, alla ricerca del male camuffata da preghiera, incurante di ciò che questo potrà significare per colei che cerca e per tutte coloro che impotenti assistono, cercando la fuga. Le campagne laziali di Mohan sono nebbiose, sospese e solitarie, proprio come le stanze del convento, flebilmente illuminate – ottima la fotografia di Elisha Christian – e per questo pregne d’un erotismo torbido che ci riconduce al cinema di Ken Russell (I Diavoli, ma anche Narciso Nero), Andrew White (Malabimba) e Walerian Borowczyk (Nel profondo del delirio). Sul citazionismo e la maturità di rielaborazione.
Immaculate – La prescelta: valutazione e conclusione
Tante, forse perfino troppe le tematiche che il duo Mohan/Lobel tira in ballo, a partire dalla necessità di raccontare e prendere posizione rispetto al maligno e alla violenza che la mascolinità talvolta cela e talvolta invece spregiudicatamente grida e mostra, danneggiando e piegando al silenzio e al dolore la figura femminile. Passando poi per la rielaborazione, qui malvagia, cupa e crudele più che mai del concetto di maternità. Torniamo ad Alien e poi ad Omen, dunque al ritrovarsi madri d’una forma sconosciuta, di un male che si è subito e mai accettato, detestandolo, addirittura rifiutandolo tanto da volersene liberare, o altrimenti nascondere e proteggere affinché tutto non si ripeta.
Immaculate nostalgicamente guarda a molto cinema horror italiano, tra Mario Bava e Lucio Fulci, ripercorrendo però ancor più coraggiosamente le tracce di un caso cinematografico insospettabilmente recente, che ad un primo sguardo potrebbe perfino sembrargli estraneo, eppure è lì, padre e per certi versi figlio della malvagità che Mohan e Lobel raccontano e mostrano, tra improvvise esplosioni di violenza – quando accade il sangue scorre a fiumi, o meglio, a fiotti – e definitive sequenze di crudeltà, Madre! di Darren Aronofski.
Laddove la Madre di Jennifer Lawrence veniva improvvisamente e ferocemente violata negli spazi di comfort e certezza della casa, Suor Cecilia viene invece violata nella sua dimensione più carnale ed intima possibile, quella del corpo. Non ci sono estranei senza nome questa volta, piuttosto suore, preti, medici e Cardinali dai volti inquietanti e immediatamente riconoscibili. Ciò che vogliono è chiaro, meno invece, il come.
Che bella poi Suor Gwen di Benedetta Porcaroli, cui dobbiamo una delle battute più vivide ed umoristiche del film: “mi si è scaricato il vibratore”, sulla scelta della fede per sfuggire alla violenza degli uomini e il rifiuto di dire addio al corpo e alle sue tentazioni. Il coraggio dunque, cui segue la caduta.
La prova di Sidney Sweeney vale la visione, non fosse che per la sequenza finale, capace di affiancarla immediatamente all’overacting straordinario, delirante e chiassoso del Nicolas Cage degli ultimi anni – ci ricordiamo di Mandy? – e ancora, raramente abbiamo osservato un lavoro così colto e maturo sui corpi, specie quelli femminili, mai mostrati e soltanto suggeriti. Di qui in poi la provocazione, il voyeurismo che sottilmente torna e il proibito celato dalla fede e dal sangue.
Immaculate è in sala a partire da giovedì 11 luglio 2024, distribuzione a cura di Adler Entertainment.