Cult Killer: recensione del film di Jon Keeyes
Un dramma a tinte thriller decisamente bizzarro e crudele. Niente più galline per Banderas, piuttosto armi, donne e traumi dell’infanzia.
Cosa accade quando un produttore di b movies action, estremamente cinefilo, tecnicamente preparato e dichiaratamente ambizioso decide di passare dietro la macchina da presa? Jon Keeyes, regista di Cult Killer conosce molto bene la risposta a questa domanda, così come la conoscevano a loro tempo i fratelli Weinstein, Michael Cimino, Guy Ritchie e molti altri importanti nomi del panorama cinematografico hollywoodiano del periodo e di oggi. D’altronde si sa, il vero battesimo è proprio la regia, ancor più se fieramente citazionista, dinamica e impavida come quella di Cult Killer, da giovedì 11 luglio 2024 al cinema, distribuzione a cura di Notorius Pictures.
Mentore, padre e… killer
Da diversi anni a questa parte, Antonio Banderas ha detto addio sia all’amato mulino bianco, che alle galline, abbracciando una volta per tutte la deriva action del suo cinema, corroborata – ma non ne ha mai realmente avuto bisogno, provenendo da un cult indimenticabile come Desperado, oltreché da Assassins e Spy Kids Saga – non troppo tempo fa da ruoli significativi in lungometraggi hollywoodiani da largo pubblico, tra i quali Uncharted e Indiana Jones e il quadrante del destino. Un volto e corpo che, seppur prestato a lungo ai topos narrativi del cinema drammatico, ha sempre dimostrato grande efficacia se piegato dai dinamismi action e così da un intrattenimento inevitabilmente più muscolare, violento ed umoristico.
Sospeso tra cinema di serie A e B movies, Banderas si ritrova co-protagonista – ed è una delle molte sorprese del film in questione – di Cult Killer, firmato da Jon Keeyes, produttore dalle pretese non eccelse di titoli più o meno recenti tra i quali La stanza degli omicidi, Panama e Paradise City. È curioso dunque che quest’ultimo abbia in qualche modo proposto il suo nuovo film da regista come fosse centrato quasi esclusivamente sul protagonismo di Banderas, che invece è solamente una fugace apparizione – seppur presenza sotterraneamente costante – rispetto alla struttura narrativa di Cult Killer, lungometraggio action quasi esclusivamente al femminile, qui in un gioco a due le strepitose Alice Eve e Shelley Hennig.
Prima sponsor – torna la figura interna agli alcolisti anonimi, resa sempre più celebre dalla viralità internazionale di Euphoria – poi padre, mentore e infine killer. Questo è Mikeal Tallini (Antonio Banderas) per la giovane e tormentata Cassie Holt (Alice Eve), la reale protagonista del film di Keeyes. Niente illusioni, né tantomeno spettacolarizzazioni della morte e della violenza, soltanto doverosi, attenti e preparati insegnamenti rispetto al mestiere dell’investigatore, che proprio come dice Tallini: “non è affatto come leggi nei libri, né tantomeno come lo vedi nei film. È tutto diverso, è preparazione, attesa, studio e attenzione”.
A dimostrazione di un cambio di passo inevitabile. Infatti la muscolarità qui non trova spazio alcuno, fatta eccezione per la prima sequenza, spostando lo sguardo sulle conseguenze di un dolore mai realmente superato, oltreché accettato e sulla mutazione sempre più cieca e spietata della vittima, che improvvisamente si inarrestabile e crudele carnefice. Oltre la crudeltà però c’è la verità, quella che fa male e fa paura e proprio per questa ragione dolorosamente taciuta.
Quando l’investigatore si fa da parte, tocca all’allieva agire e che sorpresa Alice Eve!
Cult Killer: valutazione e conclusione
A scanso di equivoci, Cult Killer non è un film memorabile, né tantomeno tecnicamente adeguato o narrativamente efficace in ogni suo passaggio ed evoluzione. Piuttosto appartiene ad un contenitore di genere che ha il grande pregio di non prendersi mai fin troppo sul serio, fieramente consapevole delle proprie possibilità, intenzioni, riferimenti e perché no, perfino sorprese. Infatti, Keeyes, partendo da uno sguardo produttivo, dunque inevitabilmente cinefilo e appassionato, contamina il suo Cult Killer di interessanti e funzionali citazioni che si rincorrono tra loro, passando per l’ultimo De Palma, il David Fincher di Millennium – Uomini che odiano le donne ed il Barry Levinson di Sleepers.
Il thriller convenzionale non sembra affatto interessare e muoversi dalle parti di Cult Killer, piuttosto il dramma sull’elaborazione del trauma, il male incontrato, subito e non compreso appieno della giovane età e così la necessità di redimersi e ripulirsi pur sempre attraverso il sangue, il dolore e la violenza. Quella stessa violenza precedentemente osservata e ora finalmente agita. Se è vero che al termine della visione allo spettatore resta più perché, che risposte, non tanto in merito alla struttura narrativa, quanto a quella stilistica ed estetica, è altrettanto vero che raramente abbiamo visto nella cinematografia recente dei villain così disturbati, macabri e definitivamente cupi e maligni.
Fin troppe ambizioni forse per un film in conclusione bizzarro, anomalo, eppure curioso.