Vinko Tomicic parla di Ladro di Cani: tra bullismo e orfanità, “queste sono le persone che muovono il mondo”
Regista di El Ladrón de Perros, Vinko Tomicic racconta cosa lo ha ispirato a parlare di povertà, disuguaglianze sociali e bullismo.
“La Paz trasmette una sensazione che sembra ferma nel tempo: la sua architettura, la sua gente e la sua particolare geografia che la colloca in una gigantesca conca nel mezzo dell’altipiano a quasi 4000 metri di altezza con pendii labirintici che le conferiscono un’energia magica e unica”. Vinko Tomicic, regista e sceneggiatore, ci spiega il motivo per cui ha scelto la capitale della Bolivia per raccontare la storia di El Ladrón de Perros. In italiano Ladro di Cani, la pellicola è stata presentata in anteprima, il 26 luglio 2024, al Giffoni Film Festival.
Cileno e classe 1987, Tomicic è l’autore della toccante storia di un tredicenne orfano che cerca di farsi strada nel mondo da solo, mentre spera e sogna quella figura paterna di cui è sempre stato privato e l’amore di una vera famiglia. Il film è stato coprodotto con Movimento Film di Mario Mazzarotto e ha come protagonista un talentuoso Franklin Aro Huasco (Martin). Nel cast, anche il veterano del cinema latinoamericano Alfredo Castro (Novoa). In questa intervista, Vinko Tomicic ci spiega cosa lo ha ispirato per El Ladrón de Perros e portato ad affrontare serie tematiche come l’estrema povertà, le disuguaglianze sociali e il bullismo.
El Ladrón de Perros: l’ispirazione per il film, il bullismo e le disuguaglianze sociali
Martin è un orfano che studia, cercando di mantenersi da solo lavorando come lustrascarpe. Com’è nata l’idea di raccontare una storia di sopravvivenza e speranza? Perché hai scelto di raccontare la storia di Martin? C’è qualcosa che ti ha ispirato?
“Nei miei lavori precedenti avevo lavorato sull’assenza materna e paterna, così mi sono proposto di fare un film che lavorasse sull’assenza genitoriale tout court, sull’orfanità e che fosse, quindi, in grado di rappresentare fino a che punto qualcuno può spingersi per ribaltare la situazione, se ne ha la possibilità. Sono questi i personaggi e le storie che mi interessano: quando i personaggi portano le situazioni al limite per superare un vuoto, anche se sanno che la sconfitta è la cosa più vicina che li aspetta. Tentare qualcosa che sembra impossibile richiede passione e per me queste sono le persone che muovono il mondo. La storia di Martin è stata una scusa per lavorare su questo aspetto”.
Martin spera che il sarto Novoa sia suo padre. Cerca di creare con lui un legame, mentre lavora come lustrascarpe coprendosi con un passamontagna per non essere vittima di bullismo. Perché hai scelto di ambientare questa storia proprio a La Paz, in Bolivia?
“Credo che il film non sarebbe stato possibile in nessun altro luogo. Nel conoscere la città, ho capito subito che c’erano tutti gli elementi per ricostruire la memoria da cui era partita l’idea. Inoltre, il mestiere del lustrascarpe sembra appartenere a un’altra epoca, ma in Bolivia è ancora molto frequente e la maggior parte di chi lo fa è rappresentata da bambini, che si coprono il volto con un passamontagna per non essere discriminati. In questa immagine, ho trovato una metafora molto forte per rappresentare il conflitto di identità che attraversa il nostro protagonista, che cerca in tutti i modi di essere osservato e riconosciuto dall’uomo che immagina sia suo padre, quando quotidianamente gli lustra le scarpe con il volto coperto”.
In El Ladrón de Perros, affronti tematiche importanti come il bullismo, le disuguaglianze sociali e la povertà, appunto, raccontando anche cosa vuol dire essere orfano. Quanto è stato difficile mettere tutto questo schermo?
“Credo che la difficoltà più grande – se così si può dire – e ciò in cui sono stato più attento è stato proprio il tentativo di restituire, con dignità, un ritratto di Martin e del suo universo senza cadere negli stereotipi di un dramma sociale di stigmatizzazione. Questa è stata la mia sfida più grande perché, con temi come la povertà, l’essere orfani o la differenza di classe, può essere molto facile caderci, ma il film non passa attraverso quella dimensione. Il film è tutto rivolto all’ascolto interiore di Martin, ai suoi sentimenti e ai suoi desideri”.
Astor, il talento di Franklin Aro Huasco e il finale aperto
Può essere difficile lavorare con attori giovani e animali. Franklin Aro Huasco ha dimostrato il suo talento e anche il bellissimo Astor, cane del sarto Novoa, è stato molto bravo. Com’è stato lavorare con loro?
“È stata un’esperienza incredibile, perché avevano tra loro una grande intesa. Franklin Aro è arrivato al film attraverso un casting aperto alla comunità dei lustrascarpe. Tutti i giovani del film sono lustrascarpe e hanno partecipato a un processo di formazione attoriale, durato più di due anni. In questo processo, Franklin ha fatto diverse prove con Astor per arrivare a quel legame. Poi, durante le riprese, siamo andati a vivere con Franklin e Julio Cesar Altamirano (Sombras) nella casa principale dove abbiamo girato il film, per poterci quasi mimetizzare nello spazio e con la storia”.
La fine di El Ladrón de Perros è aperta a diverse interpretazioni. Perché questa scelta?
“Il film ha avuto un processo di scrittura della sceneggiatura molto lungo e, fino all’inizio delle riprese, il finale era un altro: un finale chiuso. Una volta girato, ho avuto l’opportunità di provare nuove scene improvvisate, basate sugli esercizi fatti durante le prove con gli attori. Il finale del film è una di queste scene. Nel momento in cui ho girato quella scena ne ho sentito la forza, ma non sapevo ancora che potesse essere il finale del film. Poi, in fase di montaggio, ho preso la decisione, perché sentivo che la cosa più importante era chiudere con il cuore di Martin, con l’origine di tutto. Piuttosto che puntare a una risoluzione futura delle azioni, ho preferito che il finale puntasse al suo passato”.