The Crow – Il Corvo (2024): recensione del film di Rupert Sanders
Il quinto film del franchise cominciato con il celebre (e famigerato) film del 1994, è un reboot abbastanza libero nel rapporto con il materiale. Diretto da Rupert Sanders e con Bill Skarsgård, FKA twigs e Danny Huston, The Crow - Il Corvo arriva nei cinema italiani il 28 agosto 2024.
Non un sequel. Non un prequel. Nemmeno un reboot, perché non si trattava, semplicemente, di un motore (franchise) in panne da riavviare. No, le cose con The Crow – Il Corvo, nelle sale italiane dal 28 agosto 2024 per Eagle Pictures, sono più complesse di così. Adattamento per il cinema della leggendaria, omonima, serie di fumetti creata nel 1989 dall’americano James O’Barr, regia di Rupert Sanders e con Bill Skarsgård, FKA twigs e Danny Huston; nelle intenzioni dei realizzatori, è piuttosto un ripensamento, una differente interpretazione dello stesso materiale. Il quinto film in ordine cronologico di uscita – il primo nel 1994, quello della morte sul set dell’indimenticato Brandon Lee, i successivi rispettivamente nel 1996, 2000 e 2005 – prova a ricominciare tutto da capo, con rispetto ma senza lasciarsi ingabbiare dai paragoni. Reinventa l’universo e l’immaginario, calibra il romanticismo e le coordinate estetiche – gotiche, cupe e sentimentali – sui battiti di una nuova coppia di protagonisti. Devono omaggiare il fumetto e tradirlo benevolmente, incarnare lo spirito dei tempi e tenersi in equilibrio tra le spinte dei generi che ne definiscono l’identità.
The Crow – Il Corvo: tra l’amore e la morte, la vendetta
C’è un filo rosso che lega film e fumetto. Un segreto, che percorre l’opera di James O’Barr contaminando l’atmosfera dai contorni sovrannaturali, gotici, malati e dolorosamente romantici. Il segreto è la morte. L’espressione “ispirato a una storia vera” non è il massimo, ma può aiutarci a capire. A James O’Barr la storia di due giovani amanti, Eric e Shelly, separati solo dalla morte, serve a esorcizzare il dolore per la prematura scomparsa della sua ragazza. Alex Proyas non aveva in mente niente di tutto questo quando comincia a lavorare, nella prima metà degli anni ’90, al “suo” Corvo cinematografico, che dopo trent’anni resta un riferimento forte in materia di cinema gotico aperto a contaminazioni.
Non poteva prevedere cosa sarebbe successo. Non poteva immaginare che la morte, che tanta parte aveva avuto nel definire il background e l’anima del fumetto, avrebbe interferito ancora. Una grossa fetta dell’eredità cinematografica del film del 1994 è traducibile nei termini di un fascino famigerato. La tragica fine di Brandon Lee ne ha fatto, paradossalmente e involontariamente, materiale per l’immortalità, il film maledetto per eccellenza, alimentando la malinconia di un’immagine di bellezza fragile scalfita dalla morte. E di fronte a tragedie di questo tipo, la risposta è doppia: dolore e rabbia. Amore, dolore e rabbia sono le coordinate del fumetto, prima, dell’adattamento cinematografico, poi. Rupert Sanders gioca la sua partita su un terreno diverso. Il suo compito con The Crow – Il Corvo è restituire carnalità ai demoni di O’Barr e spessore al sentimento, limitandosi a creare.
Sceglie due protagonisti giovani, carini e incredibilmente moderni nelle pose, nei caratteri, nello stile. Eric (Bill Skarsgård) e Shelly (FKA twigs) condividono un passato difficile. Lei viene dalla grande città, lui no. Si conoscono in un momento complicato per entrambi – lei sta scappando da qualcuno, la prima metà della storia è tutta sua – si amano all’istante, di un amore fatto per durare. Non dura, muoiono per mano del diabolico signore del crimine Vincent Roeg (Danny Huston). La chiave è una struttura narrativa geometrica, che bilancia l’asciuttezza della prima parte – si conoscono, si amano, si perdono – con quanto di fuori dell’ordinario succede dopo. Perché se è vero che muoiono entrambi, uno dei due ritorna in vita. Eric, dopo un breve soggiorno in una sorta di limbo dell’attesa, istruito dal misterioso Kronos (Sami Bouajila), torna sulla Terra in veste di gotico vendicatore in comunicazione tra i due mondi – con tanto di cupo make-up e guardaroba rinnovato – e accompagnato da un corvo. Deve recuperare l’anima perduta di Shelly e farla pagare, una volta per tutte, a mister Roeg.
Eredità ingombranti e il peso del passato
Amore e morte, è tutta questione di purezza. Purezza di un sentimento, purezza di una condizione, purezza di una visione. Non era una montagna facile da scalare, questa, per Rupert Sanders. Riportare in vita l’universo e il personaggio; una faticaccia. Non si può pensare razionalmente a Brandon Lee e al suo retaggio. The Crow – Il Corvo le prova tutte, pur di sottrarsi al cono d’ombra della morte, perché la scomparsa del protagonista infesta la memoria del film capostipite e c’è un dolore simile alle radici del fumetto. La strategia più logica è anche la più semplice, e questo prova a fare il film: reinventare, non imitare. Era importante, parlando di The Crow – Il Corvo, mettere subito in chiaro la scarsa efficacia delle etichette tradizionali. Niente sequel, niente prequel; reboot, forse, ma senza convinzione. Un’altro tipo di immaginazione interviene sul materiale ma non per tradirlo, giusto per allontanarsene un po’, perché solo così il film del 2024 potrà respirare e guadagnarsi una nuova generazione di spettatori. Ricordando il passato, con quel tanto di coraggio necessario a metterlo in discussione.
Funzionerebbe, ma non funziona, perché manca la cosa più importante: un punto di vista chiaro. Il film si ferma a metà strada tradendo la promessa di purezza, centrale per storia e personaggi. Rupert Sanders dirige The Crow – Il Corvo su sceneggiatura di Zach Baylin e William Schneider. Manca, alla messa in scena e alla pagina scritta, la forza di una visione. Il film del 1994 era imbevuto di una sensibilità dark, gotica, fortissima e onnipresente nello storytelling degli anni ’90, ma in un certo modo aveva saputo anche anticiparla. Il Corvo (1994) era gotico come il cinema che l’aveva partorito; il cinema degli anni ’90 si scopriva gotico anche grazie a Il Corvo. Funzionava in entrambe le direzioni, non è più il caso, ora. Il film di Rupert Sanders non ha un’estetica, una visione da imporre. Né si inserisce in un solco, una tradizione, di progetti simili cui attingere per costruire il suo universo.
Il gotico è depurato e timido, il racconto della città – sporca, cupa e piovosa – deve qualcosa al grande cinema urbano (criminale) degli anni ’80, ma senza crederci troppo e con una freddezza tecnologica, digitale, su cui si poteva investire. The Crow – Il Corvo ridiscute l’alchimia tra i protagonisti, cerca vibrazioni da belli e dannati opportunamente rilette. FKA twigs, che di partenza è musicista e ballerina, colora Shelly di una grazia fragile e un’intensità nervosa. Di Bill Skarsgård il film sfrutta la fisicità nervosa e una poesia inquietante, un’attitudine in bilico tra il bene e il male. Si dimentica di lavorare con il suo cattivo, Danny Huston, in genere efficace non protagonista; qui esprime un senso di minaccia diabolica su cui si preferisce non indagare. Se è vero che un film vale quanto il suo cattivo, The Crow – Il Corvo ha in parte tradito la premessa.
The Crow – Il Corvo: valutazione e conclusione
Forse a opprimere The Crow – Il Corvo è la fatica di trovare una chiave che faccia coincidere sensibilità e visioni (e generi) diversi, dall’action al cinecomic (è anche questo) al fantasy al racconto sentimentale. Forse è l’eredità ingombrante del passato a inibirne la creatività. Fatto sta che al film manca una visione che dia ossigeno ai personaggi e credibilità all’immaginario. Resta l’impressione, ma non la fisicità, di una storia d’amore, di una fiaba cupa, gotica e romantica. La regia di Rupert Sanders non ha il fuoco giusto né sa plasmare un’estetica da intonare alla storia. Fa però la cosa giusta, evitando di scimmiottare il fumetto e, soprattutto, l’originale del 1994. Era un’impresa complicata in partenza, far quadrare i conti e trovare originalità in un film che ha troppo passato alle spalle. Prova a cercare un’altra strada, senza esito. Serviva, forse, una mano autoriale più carismatica e prestigiosa.