Campo di battaglia: recensione del film da Venezia 81
Il film di Gianni Amelio con Alessandro Borghi, Gabriel Montesi e Federica Rosellini, presentato in concorso all'81ª edizione del Festival di Venezia
Un’altra faccia del conflitto, l’ospedale che diviene trincea, l’etica che sfida l’amicizia; all’81ª edizione del Festival di Venezia, Gianni Amelio presenta in concorso Campo di battaglia, sua ultima fatica che racconta il fenomeno dell’autolesionismo dei soldati durante il primo conflitto mondiale. A due anni di distanza da Il signore delle formiche, il regista originario di Magisano colleziona la sua ottava presenza al lido, ove nel 1994 ha ottenuto il Leone d’argento con Lamerica e nel 1998 ha trionfato con il Leone d’oro per Così ridevano. La nuova pellicola, ambientata nel Friuli-Venezia Giulia del 1918, oltre a vantare la presenza, tra gli altri produttori, di Marco Bellocchio, vede poi la produzione di Kavac Film, IBC Movie, One Art e Rai Cinema, con la collaborazione della Friuli-Venezia Giulia Film Commission e della Trentino Film Commission. Attore protagonista è Alessandro Borghi, affiancato da un sempre più gettonato Gabriel Montesi (Dostoevskij, Io sono l’abisso) e da Federica Rosellini (Il legame, Confidenza).
La distribuzione del film nelle sale italiane, curata da 01 Distribution, è prevista a partire dal 5 settembre 2024.
Campo di battaglia: guerra alla guerra
È il 1918, Stefano (Gabriel Montesi) e Giulio (Alessandro Borghi), entrambi ufficiali medici e amici fin dall’infanzia, lavorano a stretto contatto in un ospedale militare del Friuli, ove di giorno in giorno si ammasso i feriti più gravi dal fronte. Sin dalle prime battute si comprende il dissidio tra il dovere dei soldati e la volontà di far ritorno a casa, lasciandosi alle spalle le brutture e i devastanti effetti del conflitto, con molti dei feriti sospettati di essersi autoinflitti le lesioni pur di non rimettere piede in trincea. Alcuni di essi si aggravano inoltre in circostanze misteriose, proprio durante la loro permanenza in ospedale, così da far crescere i dubbi rispetto all’operato di uno dei medici presenti, indiziato di complicarne di proposito lo stato di salute pur di aiutarli nel loro intento.
L’approccio dei due protagonisti si contrappone laddove Giulio, dal canto suo, appare ben più tollerante e vicino ai timori dei pazienti, mentre Stefano dimostra un’intransigenza che lo porta quasi all’ossessione verso i numerosi autolesionisti, che egli vorrebbe subitamente rispedire al fronte. A fare da tramite tra i due vi è Anna (Federica Rosellini), amica di entrambi anch’essa dedita alla medicina ma che, a causa del suo essere donna, è costretta ad accontentarsi del volontariato per la Croce Rossa.
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A complicare una situazione già estremamente complessa, la seconda parte dell’opera apre ad un altro degli aspetti più drammatici che la Grande guerra ha dovuto affrontare: il diffondersi della Spagnola. Il morbo infettivo si diffonde improvvisamente e con estrema rapidità in tutta Europa, causando ancor più morti delle armi nemiche e senza fare alcuna distinzione tra le sue vittime, dagli alleati ai nemici, dai militari ai civili – ora disperati perché alla ricerca di posti letto in ospedali già saturati dalla presenza dei molti feriti. Giulio, da sempre più incline alla ricerca e sospinto tra gli infermi dall’amico e collega Stefano, ormai certo dei sospetti nei suoi confronti, tenta quindi invano di studiare la nuova infezione in cerca di una cura.
L’orrore della guerra da una nuova prospettiva
La guerra è prima, la guerra è dopo, la costante è l’orrore che dal fronte migra sino al reparto d’ospedale, ora teatro delle conseguenze, ora luogo in cui il conflitto, che è causa, mostra i suoi effetti. I colpi d’arma da fuoco diventano lamenti e il dolore assume nuova forma, scisso lungo una scala valoriale che lo pone a servizio della sua preda, che ne rivaluta la natura e ne ricalcola le possibilità, consapevole che l’autolesionismo o la disposizione alla sofferenza e al malanno possono essere salvifiche.
Il cinema racconta la guerra da sempre, la mostra dall’interno e ne racconta la ripugnante straordinarietà, ma qua il conflitto diviene morale, diviene etico: Giulio vorrebbe solamente essere l’aiuto di cui l’uomo necessita, perseguendo l’unico e semplice scopo di preservare la vita, Stefano risponde a un dovere che più che medico è politico, militare, patriottico e Anna si frappone tra i due, alla ricerca di una giustizia ormai indefinibile e limitante: tesi (Borghi), antitesi (Montesi) e sintesi (Rosellini) che si rispecchiano nel controverso ed intimo rapporto che lega i tre personaggi, i quali non trovano risoluzione ma sono anzi costretti a piegarsi davanti all’incombere di un male che non conosce etica, che non conosce giustizia, più forte della scienza e della medicina, un male che sposta ancora una volta la battaglia su di un campo nuovo, un campo senza armi e senza trucchi, un campo di battaglia in cui non vi è carnefice ma solamente innumerevoli vittime.
Campo di battaglia: valutazione e conclusione
Campo di battaglia deve moltissimo all’esperienza pluriennale di Gianni Amelio, che qui realizza una delle sue opere tecnicamente meglio riuscite, incorniciata all’interno di un’ambientazione rielaborata in maniera metodica; le fredde e malferme location friulane si esaltano nella fotografia di Luan Amelio Ujkaj, figlio del regista, già al fianco del padre in diverse altre occasioni (Passatempo, Hammamet); la scenografia di Beatrice Scarpato (I nostri figli, Orlando) e i costumi di Luca Costigliolo (al festival quest’anno anche con Familia di Francesco Costabile) sono curanti al dettaglio e attribuiscono una veridicità che trova la sua esaltazione nelle interpretazioni di Alessandro Borghi e Gabriel Montesi, mai eccessivi, sempre fedeli al proprio ruolo, sempre calzanti.
I due sono affiancati da una Federica Rossellini con cui invece si fatica ad empatizzare, che sembra rimanere sempre troppo distante, ma forse la colpa non è da attribuire all’interprete bensì alla scrittura e alla resa di un’opera a cui, nonostante le molte premesse e nonostante i molti pregi, va rimproverata una scarsa capacità emozionale. Un’opera dai molti attributi tecnici e che racconta qualcosa di nuovo ma da cui, visto il soggetto di partenza e vista la carriera del suo autore, ci si potrebbe aspettare un diverso trasporto ed un maggior coinvolgimento emotivo.