Quiet Life: recensione del film da Venezia 81

Il film di Alexandros Avranas presentato nella sezione orizzonti dell'81ª edizione del Festival di Venezia.

Il dramma dei traumi sottaciuti vive nello scontro tra l’apparato genitoriale e quello istituzionale nel film del regista greco Alexandros Avranas. L’autore torna al Festival di Venezia con Quiet Life, a 11 anni di distanza da Miss Violence – vincitore del Leone d’argento alla 70ª edizione – con il rapporto familiare sempre al centro ma l’amore che si sostituisce alla violenza, lasciata alle forze governative che giostrano la realtà dei protagonisti, rifugiati senza asilo intenti ad ambientarsi in un mondo nuovo. Il 5° lungometraggio di uno dei principali rappresentanti dell’ellenica ondata che negli ultimi anni ha travolto l’industria cinematografica, presentato nella sezione Orizzonti della 81ª Mostra del Cinema, è prodotto da Les Films du Worso e vede protagonisti Grigoriy Dobrygin e Chulpan Khamatova, assieme alle giovanissime Naomi Lamp e Miroslava Pashutina e all’ormai attrice feticcio del regista, Eleni Roussinou (Miss Violence, Love Me Not).

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Quiet Life: gli ostacoli dell’adattamento

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Silenti ed ordinati, disposti per immortalare quell’amore che proverà a farsi salvifico, al di sopra del potere, al di sopra del controllo. Sergei (Grigoriy Dobrygin), Natalia (Chulpan Khamatova) e le due figlie Alina (Naomi Lamp) e Katja (Miroslava Pashutina) vivono da rifugiati russi in cerca d’asilo nella Svezia del 2018, ove fanno tutto il possibile per ambientarsi e diventar parte di quella comunità, attraverso lo studio della lingua e l’educazione delle due bambine, in attesa di una risposta dal governo in merito alla loro richiesta. È proprio il mancato ottenimento d’asilo a dare il là al vero dramma, dal momento in cui si fa causa dell’inspiegabile ed improvviso stato di coma che colpisce la più piccola della famiglia, Katja.

La clinica in cui la giovanissima viene curata nasconde pratiche sinistre, manipolatorie, invasive, e il rischio di battersi con l’istituzione viene chiarito dall’unica presenza ausiliaria per la famiglia, Adriana (Eleni Roussinou), operante all’interno della stessa clinica ma in conflitto con essa e con i suoi metodi perché testati sulla propria pelle (anche lei ha a causa un figlio caduto da tempo in uno stato di sonno profondo). Nel frattempo i due coniugi cercando di istruire Alina affinché testimoni riguardo all’aggressione subita dal padre in Russia prima dell’emigrazione, falsificandone lo sguardo poiché rubato a quello della sorella, reale spettatrice di quel fatto, ma alla ricerca di quel mancato asilo, causa di tanta sofferenza.

Sindrome della rassegnazione

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Rassegnazione al trauma, rassegnazione ai poteri forti, al soccombere del proprio volere alle prevaricazioni di chi ha il potere definire i destini, di sancire negate possibilità. La finzione è completamente reale, in un’opera che apre gli occhi su un tema tenutoci nascosto ma che in realtà negli ultimi anni sta prendendo sempre più piede (soprattutto in Svezia e ultimamente anche in Ucraina, ma presente sin dai tempi dei campi di concentramento) e che vede molti, soprattutto i più giovani, cadere in questo stato di trance, in quest’allontanamento dalla vita causato di forti stress, di paure ed insicurezze come quelle che si possono nascondere dietro alla mancata assegnazione di uno spazio, di una casa, al disconoscimento della propria possibilità di vivere. La sindrome della rassegnazione è la sindrome di chi nell’immaginaria quietezza vive la sua inquietudine, di chi vedendosi messo in dubbio, o persino tolto, il proprio diritto alla vita per come dev’essere, sprofonda in un totale annullamento di essa.

Quiet Life: valutazione e conclusione

Alexandros Avranas cinematographe.it

Il silenzio di un sonno profondo trova la sua voce, o meglio trova la sua immagine, la sua rappresentazione: curata, precisa, asetticamente geometrica. Alexandros Avranas – che strizza l’occhio al Lanthimos de Il sacrificio del cervo sacro e rielabora il rigore rapportuale di Miss Violencemette luce su uno zona buia e fa suonare il suo film di un silenzio inquietante, spaventoso se pensato nel suo essere reale. È una cruda realtà mascherata da triste metafora, che trova forza nella malinconica e nella perfettamente calzante interpretazione di tutti gli attori in scena, dalle giovanissime e sorprendenti Lamp e Pashutina, alle straordinarie prove di Dobrygin e Khamatova, i due genitori che accostano la forzata freddezza del pater familia all’inquieto trasporto di lei, attrice perfetta per il ruolo, essendo lei stessa emigrata dalla Russia e avendone lei stessa affrontato i turbamenti. Il cinema si fa indispensabile quando apre l’occhio dello spettatore che, nel buio della sala, non deve far altro che abbandonarsi silenzioso ad un racconto che con poche parole ci racconta moltissimo e che tramite la forza espressiva e di visione ci dice tutto.

Regia - 4
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 3.5
Sonoro - 3.5
Recitazione - 3.5
Emozione - 3.5

3.7