Peacock: recensione del film da Venezia 81

La recensione di Peacock, il film per la regia di Bernhard Wengerin, presentato l'1 settembre 2024 a Venezia 81.

Peacock, primo lungometraggio di Bernhard Wengerin presentato nel corso della Settimana Internazionale della Critica a Venezia 81, cineasta talentoso che si è fatto le ossa coi corti, è film estremamente affascinante, stratificato di implicazioni, tra psicologia, sociologia e allegorismo. Storia di un uomo che per lavoro accontenta gli altri diventando chi loro vogliono che sia. Non senza conseguenze per la sua vita non solo personale, ma anche interiore. Fino al disastro che permette la rinascita.

Peacock: quando essere pagati per diventare centomila condanna alla solitudine dei nessuno

Peacock, recensione, Cinematographe.it

Matthias, ragazzone baffuto e biondo, lavora in un’agenzia che offre servizi di mimetismo: basta sfogliare il catalogo e scegliere il professionista più adatto a impersonare l’idealtipo richiesto, che sia quello di un fidanzato raffinato, di un figlio amorevole, di uno sparring partner con cui prepararsi a rispondere ai colpi di un marito troppo aggressivo, di un papà in carriera con cui impressionare i compagni di classe non sprovvisti per orfanezza o negligenza accuditiva di un genitore di sesso maschile. Fingersi qualcun altro solleva dalla fissità dei tratti di personalità rigidi e presuppone un’evanescenza identitaria di fondo: un bene e un male insieme.

Lo scopre a sue spese il Matthias di cui sopra, protagonista di questo film scritto e diretto dal cineasta austriaco Bernhard Wengerin, in cui recitare un copione finisce per espropriare l’individuo della capacità di recitare a soggetto: Matthias non sa più quali sono i suoi gusti – ha acquistato un’installazione a forma di orso polare perché gli piace o perché piacerebbe a un ‘suo personaggio’ cultore del design? – o come reagirebbe in certe situazioni – aggressioni, tentativi di rapina – poiché troppo invischiato nella pratica di diventare un altro a tal punto da non poter essere se non un altro. E se, come scriveva Rimbaud, l’io è sempre un altro – chi si conosce davvero? – e se, d’altronde, assumere una parte è inevitabile ai fini dell’inclusione e della permanenza nel contratto sociale, perdere dimestichezza con l’improvvisazione e non riuscire più a essere spontanei possono comunque diventare ragioni sufficienti all’incrinatura, alla deflagrazione della crisi.

Peacock: valutazione e conclusione

Crisi, punto di rottura, destabilizzazione improvvisa, frastagliata linea di passaggio tra un prima e un dopo dell’esistenza: è quanto sperimenta Matthias, in un film tecnicamente eccellente, scritto con piglio incisivamente bizzarro, tra demenzialità intelligente e spietato acume, che riflette sul significato di autenticità, sulla sua perdita, sull’alienazione che subiamo – Matthias è uno di noi – in una società in cui, e nessuno può dirsi innocente, strutturalmente possiamo restare solo se accettiamo di svolgere delle funzioni o di occupare delle posizioni, e in un tempo nel quale impersonare qualcuno finisce spesso per diventare operazione attaccaticcia e compulsiva, con conseguenze di spossessamento di sé. Spossessamento che il film mostra in fondo con delicatezza, accompagnando il suo eroe nella discesa, ma anche nella risalita. Risalita possibile solo a patto di accogliere la follia. Immaginiamo che l’austriaco Wengerin non conosca l’opera di Pirandello, ma, qualora dovesse imbattersi in qualche scritto del nostro romanziere e drammaturgo, scommettiamo che gli piacerebbe molto: spintosi troppo in là nella mascherata, nell’assunzione di identità plasmate a partire dal desiderio altrui, Matthias è costretto, per recuperare una minima genuinità fondamentale all’umano, a diventare un po’ folle, a trasgredire non solo il feroce imperativo a corrispondere le attese e a compiacere, ma anche a sfidare la comune accettazione dell’ipocrisia quale fondamento del vivere sociale, della civiltà normata dalle leggi dell’educazione.

Interessante l’utilizzo, a cui il film ricorre, di un bestiario come dispositivo di traslochi simbolici e di rispecchiamenti: l’enorme alano che la fidanzata di Matthias porta in casa per metaforizzare il suo bisogno di essere vista; il pechinese che Matthias stesso affitta per ‘ammorbidire’ la sofferenza della separazione; il pavone, da cui il titolo del film, che lui vede insieme a Ina, la ragazza norvegese con cui spera di distendere le sue contratture sentimentali, a incarnare l’inflazione dell’ego. Lo stesso Mathias, uomo troppo poco bestiale, spossessato di sé da un eccesso perverso di civiltà, può forse leggersi come allegoria dell’Austria, Paese dalla parvenza libertaria, tuttavia vero e proprio inferno ordinato e ipertech che nasconde, dietro la perfezione formale delle case, delle strade, delle conversazioni, un viluppo pulsionale negato o schiacciato da modelli comportamentali fondati sulla repressione e sulla sostituzione sistematica del vero sé col falso sé. Se lo guardiamo da questa prospettiva, Peacock ci si rivela allora anche come film civile, antipedagogico, un saggio dell’estenuazione psicologica derivante dalla continua recita, sia questa recita l’espressione del bisogno ossessivo di fare il pavone far mostra di una maestosità in verità assai fragile, una grandiosità di copertura – o l’abitudine alla finzione dovuta a un equivoco, che solo così si possa essere riconosciuti e amati: diventando chi ‘serve’ all’altro perché possa esibire o confermare se stesso come privo di mancanze. In sintesi, essere riconosciuti e amati di un riconoscimento e di un amore narcisistici.

Regia - 4
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 4
Recitazione - 4
Sonoro - 4
Emozione - 4

4