L’ultima settimana di settembre: recensione del film di Gianni De Blasi
Il film di Gianni De Blasi con protagonisti Diego Abatantuono e Biagio Venditti, che ha aperto il Giffoni Film Festival 2024, è al cinema dal 12 settembre 2024.
La fine che dà inizio, la morte che dà vita, il viaggio di un rapporto nato per necessità e sviluppatosi nel dolore; L’ultima settimana di settembre è il film diretto da Gianni De Blasi – al suo primo lungometraggio di finzione dopo il documentario Altamente ed il corto L’elemosina – che trae ispirazione dall’omonimo romanzo scritto da Lorenzo Licalzi ed edito da Rizzoli nel 2015. Sceneggiata a sei mani dallo stesso regista, assieme ad Antonella Gaeta (Ti mangio il cuore, Bellissime) e a Pippo Mezzapesa (Il bene mio, Il paese delle spose infelici), la pellicola vede protagonista Diego Abatantuono al fianco del giovane Biagio Venditti, al suo esordio cinematografico dopo la partecipazione alla serie Netflix Di4ri. Il film – prodotto da Tramp Limited, con la collaborazione di Medusa Film e Passo Uno e con il supporto logistico di Apulia Film Commission – è stato presentato in anteprima al Giffoni Film Festival 2024 come film d’apertura.
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L’ultima settimana di settembre: dalla morte alla vita
È il 20 settembre 2017, nel giorno del suo compleanno l’anziano Pietro Rinaldi (Diego Abatatuono), burbero ed infelice scrittore rimasto vedovo da qualche anno e ormai ritiratosi a vita privata, decide di porre fine al suo malessere e di togliersi la vita ingerendo una grossa quantità di farmaci. Scritta la lettera d’addio per la figlia, unico motivo di rammarico rispetto alla sua scelta, egli sembra avviarsi verso quel suicidio meditato da tempo, ma l’irrompere in casa di due agenti di polizia lo interrompe per portare una terribile notizia: la stessa figlia sopracitata, Roberta (Roberta Mattei), è rimasta vittima di un incidente mortale assieme al marito, lasciando così orfano il loro unico figlio Mattia (Biagio Venditti).
Pietro, costretto ad annunciare quella morte “venuta a prendersi le persone sbagliate” ad un nipote con cui non è mai riuscito a costruire un rapporto, convince quest’ultimo ad intraprendere con lui un viaggio in direzione dello zio Marcello (Luciano Scarpa), mai conosciuto prima ma propostosi volontariamente come nuova figura di riferimento del ragazzo. Nonno e nipote partono quindi, in compagnia del cane Sid, per un’avventura che li porta prima a ritrovare una coppia di vecchi amici di famiglia da cui Pietro si era voluto allontanare, poi a fare la conoscenza di due giovani autostoppisti e della loro insegnante Wanda (Marit Nissen), il tutto per arrivare infine alla meta prefissa ed alla relazionale resa dei conti.
Viaggio di formazione familiare
L’ultima settimana di settembre è l’incontro tra il dramma familiare e il road movie, viaggia lungo un percorso che vuole formare entrambi i protagonisti ponendoli a confronto, a contatto, uniti dal dolore e dall’elaborazione del lutto, ma divisi da un rapporto mai sorto, ove Pietro non è “nonno” e Mattia è solamente un ragazzino di cui l’altro non sa nulla, nemmeno l’età.
I due non sembrano poter convivere, laddove il bisogno di sostegno del giovane, a cui non è rimasto nient’altro che il suo fedele compagno a quattro zampe, è contrastato dalla convinzione dell’anziano di non poterlo aiutare perché solo, perché vecchio, perché infelice; eppure è grazie alla loro distanza che sembrano riuscire a sostenersi, loro che a causa della morte stanno scoprendo (Mattia) e riscoprendo (Pietro) la vita, il primo con curiosità, il secondo con scetticismo.
L’ultima settimana di settembre: valutazione e conclusione
Il film di Gianni De Blasi commuove quindi nell’idea, nell’intenzione, ma fatica a fare breccia nello spettatore dal momento che mescola situazioni di cui il cinema italiano è fin troppo saturo: ancora una volta il viaggio, ancora una volta l’elaborazione del lutto che passa per rapporti complessi, il tutto narrato tramite un tono drammatico che pecca di intensità, che non coinvolge come dovrebbe, spezzato da situazioni per nulla indispensabili e da escamotage narrativi alquanto vulnerabili, che appaiono forzati (come ad esempio tutto il retroscena legato allo zio). La sfida di riportare Diego Abatantuono al dramma, esaltandone la tragicità espressiva, non sembra premiare, non impatta a dovere, forse perché di poca consistenza o forse perché accompagnata dall’evidente inesperienza sia del co-protagonista Biagio Venditti che del regista del film. La scrittura riprendere un romanzo che troppo facilmente si presta ad una commercializzazione cinematografica e che viene peraltro rivisitato e depotenziato della sua semplicità, rimanendo in quel limbo di opere che tentano di complicarsi ma lo fanno solo in parte, intrappolate nel loro conformismo, nella loro banalità.
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