La pistola e la spada: così Per un pugno di dollari di Sergio Leone dialoga con Yojimbo di Akira Kurosawa

L'outlaw hero dal Giappone feudale di Kurosawa al West di Leone.

I film Per un pugno di dollari (Leone, 1964) e Yojimbo – la sfida del samurai (Kurosawa, 1961) sono accomunati da un intreccio narrativo praticamente identico, desunto, molto alla lontana, da Piombo e sangue, romanzo di Dashiell Hammett del 1929. Pare che Sergio Leone, colpito dalla potenza del film nipponico, lo avesse adattato in un soggetto, grazie al quale convinse Clint Eastwood a interpretare il protagonista del suo film. D’altronde la visione del maestro italiano si rivelò, per molti aspetti, differente da quella del cineasta giapponese, nonostante una radicale riscrittura dell’outlaw hero, tipico personaggio del cinema western, sia alla base di entrambe le pellicole.

L’outlaw Hero nel western classico

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Il western classico è un genere che tradizionalmente utilizza la messa in scena del paesaggio per riflettere sul contrasto fra natura selvaggia e civilizzazione. Si tratta di raccontare come la società statunitense sia nata dalla colonizzazione di immensi e, spesso ostili, spazi naturali. Configurandosi così come racconto mitico autoctono per un paese privo di una forte tradizione culturale specifica. Gli Stati Uniti appaiono allora la terra dei liberi, perché rappresentano il potere di autodeterminarsi dell’uomo (bianco, di discendenza europea, per lo più protestante), in grado di domare le primordiali forze della natura e le minacce da esse derivanti, spesso rappresentate dagli indiani (beffa, oltre che danno, per un popolo praticamente cancellato dai coloni europei). Ombre rosse (Ford, 1939) è forse uno dei maggiori esempi di questo tipo di cinema. La variante più tarda del mito western si concentra su come, poi, queste forze selvagge, di cui la violenza è espressione plastica, venissero a innestarsi nella costituzione stessa delle comunità appena fondate. Nasce, allora, la figura dell’eroe outlaw, solitamente un pistolero, che vive ai margini della società, rifiutandone le regole, magari a contatto con la wilderness. Egli è sempre pronto, però, a rientrare nella comunità civilizzata, giusto il tempo di eliminare con la violenza le minacce al vivere civile. Si pensi, per avere un esempio di tale eroe, al Tom Dinophon (John Wayne) di L’uomo che uccise Liberty Valance (Ford, 1962).

Yojimbo e la spada della libertà

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Kurosawa gira Yojimbo partendo proprio dalla mitologia western, che utilizza per restituire una lettura moderna di una figura tipicamente giapponese, quella del samurai imbattibile.

Il critico Tadao Sato sostiene che la poetica di Kurosawa, nelle opere successive alla seconda guerra mondiale, ruotava attorno all’asserzione che il significato della vita per il popolo giapponese, non potesse più essere fornito dalle tradizionali strutture ideologiche legate all’autorità statale/nazionale, ma doveva esser frutto di una ricerca individuale che passasse per la sofferenza. In quest’ottica la figura del samurai andava riscritta.
Tradizionalmente araldo di concetti quali la fedeltà al proprio signore feudale e l’annullamento dell’identità soggettiva all’interno di una rigida etichetta cavalleresco-militare, il samurai viene trasformato da Kurosawa, in Yojimbo, nel suo opposto, grazie alla sovrapposizione con la figura dell’individualista senza legge dei western. Non è un caso che il film introduca il suo eroe con delle inquadrature in cui la figura di Sanjuro (questo il nome del protagonista, interpretato da Toshiro Mifune) si staglia su uno sfondo naturale, fornito dal paesaggio montano giapponese. Egli, come gli outlaw western, fa parte della wilderness. Il codice di comportamento che segue è ancora il bushido, ma reinterpretato secondo una moderna visione individualista. Sanjuro è una sorta di forza della natura che può decidere autonomamente dove e cosa colpire.

Per un pugno di dollari di Sergio Leone a confronto con Yojimbo – la sfida del samurai di Akira Kurosawa

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Nonostante il tentativo di Kurosawa di costruire una certa ambiguità morale attorno alle scelte del protagonista, è chiaro fin dall’inizio che il samurai abbia come obiettivo quello di distruggere i due clan rivali, che spadroneggiano in un piccolo villaggio. Lo afferma fin dai primi dialoghi con l’oste della taverna. Egli non si pone allo stesso livello né degli abitanti, succubi del potere dei clan, né dei guerrieri, privi di onore, dei clan stessi. Una inquadratura in particolare lo pone simbolicamente sopra tutti gli altri personaggi, in cima a una sorta di torretta, mentre guarda dall’alto, divertito, lo scontro, da lui provocato, fra i due clan. Sanjuro, in quanto figlio della natura, è figlio simbolico di una certa concezione animista del Giappone. Come il leggendario Myamoto Musashi, egli segue il Dokkōdō, la via dell’uomo solitario, che nell’ottica di Kurosawa è la via della libertà spirituale e di pensiero. Ma si badi bene, non si tratta, qui, di una forma di libertà egoista, bensì di quella derivante dalla tradizione delle ideologie libertarie che sostiene che “l’uomo non è veramente libero che tra uomini liberi” (M. Bakunin, La liberta degli uguali). Si tratta in Kurosawa, come sempre, di una visione umanista. Per questo motivo Sanjuro agisce contro i rappresentanti delle strutture di potere che riducono l’umano a un vettore di mero guadagno economico.

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Fuor di metafora, il samurai invincibile, figlio della tradizione giapponese, lotta contro il capitalismo importato sull’isola dai “conquistatori” statunitensi. Entrambe le famiglie al potere infatti sono legate all’affermarsi della nascente classe mercantile. Il commercio della seta e dell’alcol – l’economia – appaiono come dei prolungamenti delle attività criminali (il gioco d’azzardo e lo sfruttamento della prostituzione). Invece le antiche forze nazionaliste, quelle che avevano trascinato il Giappone in guerra e che negli anni sessanta erano pronte a svenderlo ai nuovi padroni occidentali, sono ridicolizzate attraverso le figure dell’agente di polizia inetto e del governatore corrotto. L’outaw samurai – una versione idealizzata del ronin – nella sua azione violenta non mira a rifondare la società secondo i dettami di un dato ordine sociale. Piuttosto afferma la forza di una libertà radicale, che il regista lega alle tradizioni filosofico-marziali giapponesi, contrapponendole sia al loro reale utilizzo storico (di sostegno intellettuale e militare ai ceti dominanti) sia alla coeva colonizzazione militare e culturale americana – da qui il valore simbolico del trionfo della spada di Sanjuro sulla pistola di uno dei villain, icona proprio del genere western e dunque della cultura statunitense. Si può dunque sostenere che Yoijmbo sia un film che, attraverso la metafora storica, si inserisce all’interno di una riflessione ideologica moderna, in cui, l’eroe individualista trova una giustificazione solamente nel suo rapporto con la collettività/comunità. Da questa tensione scaturisce l’esigenza del regista di utilizzare tecniche di ripresa che privilegiano i campi lunghi e medi e in cui il panfocus permette di assistere alle azioni compiute da più gruppi di persone, su più piani del quadro. L’azione del singolo, per quanto titanica, non è mai separabile dal contesto sociale.

Per un pugno di dollari. La pistola nichilista

Per un pugno di dollari, parte da un presupposto uguale e contrario a quello di Yojimbo. Leone infatti restituisce questa storia di samurai al suo contesto western. Nel farlo riconfigura il mondo entro il quale l’eroe si muove, per dare la propria visione dei rapporti di potere fra Stato/Nazione, individuo e dinamiche economiche. I clan rivali, nel film italiano, sono delineati attraverso le coordinate di un familismo tribale quasi primordiale. Uno dei clan è composto da una famiglia guidata da un padre/sceriffo corrotto e da una lugubre moglie/matriarca. L’altro invece è costituito da una banda di delinquenti, capeggiata da tre fratelli, fra cui spicca Ramon, il crudele leader.

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Non si tratta più di raccontare lo scontro fra una visione capitalista che reifica l’umano e una tradizione umanista che anela alla libertà, conquistata attraverso la sofferenza (della violenza). Leone descrive, in termini nichilisti, l’illusione ideologica su cui si basa il mito della frontiera americana – il film è ambientato in un villaggio al confine fra Messico e Usa. La frontiera è davvero terra di libertà, ma una libertà intesa come trionfo dello stato di natura in cui vale l’hobbesiano “homo homini lupus”. Senza Stato/Nazione c’è solo il disordine e la civiltà crolla. L’outlaw hero, l’iconico Clint Eastwood/uomo senza nome, recupera la funzione di ristabilire un ordine, cioè di permettere che governo messicano e statunitense possano scendere a patti, per instaurare una sorta di controllo sul villaggio, a cui comunque egli poi si sottrarrà, per tornare nella wilderness.

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Il personaggio di Eastwood lotta per un concetto di libertà meno idealistico di quello sostenuto da Sanjuro. Tanto che il pistolero appare più ambiguo nelle sue azioni. Egli non sembra seguire, fin dall’inizio, un piano preciso, ma, di volta in volta, agisce per un tornaconto economico personale, salvo lentamente cambiare idea. Solo di fronte alle ingiustizie perpetrate davanti ai suoi occhi dai due clan rivali, egli si decide a spingerli all’annientamento. Vi è, nella visione di Leone, una maggiore attenzione nei confronti dell’azione individuale mossa da meri fini utilitaristici, tanto che mai l’eroe del film compare in posizioni che lo pongano ad un livello superiore rispetto agli avversari. Inoltre nonostante la presenza, anche nel film italiano, di campi lunghi e inquadrature corali, Leone mette un maggior accento sui dettagli e sui volti dei suoi personaggi attraverso l’uso dei suoi famosi primi e primissimi piani, nei momenti fondamentali, in cui le scelte dei singoli avranno conseguenze per il contesto sociale. Insomma, a differenza di Kurosawa, che comunque lega la libertà individuale a una certa tradizione culturale giapponese collettiva (il bushido), Leone sostiene l’autonomia assoluta dell’individuo, che mosso solo dall’utilità, decide di agire secondo giustizia, in maniera quasi fortuita.

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Perciò per riassumere si può sostenere che il film di Kurosawa presenti una visione politica ispirata a un certo anarchismo libertario, rivisto secondo la filosofia marziale tradizionale giapponese e contrapposto alla diffusione del sistema economico capitalista, inteso come strumento di conquista dei colonizzatori statunitensi. Quella di Leone, invece appare più una pellicola improntata a una visione politica frutto di una disillusione anarcoide nei confronti di un mondo che, in ogni caso, presenta la necessità di un ordine economico/sociale di matrice statale, per non cadere preda dell’avidità amorale, che si nasconde nel sistema economico capitalista. Quest’ultimo appare insomma solamente la versione moderna di una concezione dell’esistenza utilitarista, a cui non è possibile sostituire un’alternativa e che determina le azioni di chiunque.
In Kurosawa si afferma la spada spirituale, in Leone la pistola materialista.