La storia di Souleymane: recensione del film di Boris Lojkine
La storia di Souleymane, premiato a Cannes 2024, è un bell'esempio di cinema veloce, viscerale e dalla giusta profondità. Regia di Boris Lojkine, in sala il 10 ottobre 2024.
L’etichetta cinema d’impegno sociale non piace a Boris Lojkine. Non è esatto. La storia di Souleymane, in sala il 10 ottobre 2024 per Academy Two, in collaborazione con Circuito Cinema Scuole, è il suo terzo film di fiction. Ha cominciato con il documentario e il paradigma di riferimento, per sensibilità, affinità linguistiche e di grammatica del mezzo, sembrerebbe proprio la corrente di cinema socialmente consapevole francofono che ha come portabandiera i fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne. Parlando con la stampa, però, Boris Lojkine precisa che il film – premiato a Cannes 2024 nella sezione Un Certain Regard – guarda altrove. Al neorealismo italiano, all’immagine sporca, al realismo viscerale e senza fronzoli, del grande cinema americano anni ’70 e relative più recenti declinazioni (i fratelli Safdie). Il protagonista si chiama Abou Sangare, è un non professionista come gran parte del cast. Il mantra autoriale di Boris Lojkine è: privilegiare la freschezza di volti che, nei confronti della macchina da presa, sono dei perfetti estranei.
La storia di Souleymane: tre giorni nella vita di un rider immigrato che spera nel diritto d’asilo
I premi per il film, a Cannes, sono due. Premio della Giuria e al Miglior attore, il protagonista Abou Sangare. Quale riconoscimento conti di più, per Boris Lojkine, quale sia più vicino all’impellente bisogno di verità del suo cinema, non è necessario specificarlo. Abou Sangare ha freschezza di modi e un buon controllo. La sua prova è così maledettamente convincente perché è il riflesso della meticolosità ossessiva di un autore che poggia narrazione e sentimento su una radicale scelta di campo. Niente manierismi, niente consumati istinti professionali, la storia chiede altro, l’ingenuità salutare dell’esordiente che non conosce le scorciatoie del mestiere e non può, trovandosi di fronte alla verità, che accettarla per quella che è. Abou Sangare non è Souleymane e non ha vissuto alla maniera del protagonista, ma Boris Lojkine lo accompagna cercando di far combaciare le due biografie, del personaggio e dell’interprete, se non nei fatti, almeno nello spirito.
Souleymane (Abou Sangare) è un rider originario della Guinea che sfreccia per le strade di Parigi – una Parigi depurata della bellezza turistica e dell’iconica riconoscibilità – con un’idea fissa: vedersi riconosciuto il diritto d’asilo. La storia di Souleymane è il racconto viscerale e frenetico dei tre giorni che precedono il fatidico esame che stabilirà se il ragazzo ha o no diritto alla protezione giuridica della Repubblica Francese. È la storia dei piccoli e grandi casi, delle speranze e delle paure di un giovane animato da una volontà implacabile che potrebbe anche non bastare. E anche la storia delle bugie e delle reciproche incomprensioni, tra quelli che arrivano e l’Occidente privilegiato che non ha voglia di accogliere e non ha speranze da offrire. Per ottenere lo status di protetto, Souleymane deve convincere le autorità francesi e non può farlo raccontando la verità. Avere fame non basta. Manda a memoria una versione fittizia della sua vita, costruita per dare all’ascoltatore ciò di cui ha bisogno. Anche questo è importante: trovare le parole giuste per raccontare la storia giusta.
Boris Lojkine non lascia mai da solo il protagonista. Corre in bicicletta sfidando il caos della città per arrivare in tempo a un appuntamento che inevitabilmente mancherà, ma anche se ce la facesse non è detto che basterebbe. È un merito importante, un’idea di scrittura che fa presto a diventare cinema puro, mettersi a fianco del protagonista senza schiacciarsi sul suo punto di vista. C’è un mondo di relazioni, bisogni e possibilità intorno a Souleymane e il film non se ne scorda. Non era così scontato. Ma proprio qui sta il punto. Con La storia di Souleymane, il tentativo di Boris Lojkine è offrirci la sua versione di quello che generalmente viene considerato cinema sociale. L’etichetta non lo soddisferà, ma di questo si tratta.
Un esempio riuscito di cinema tridimensionale
È una questione di visibilità. Oltre la denuncia delle iniquità sociali del capitalismo rapace (c’è anche questo, va da sé), il guanto di sfida di Boris Lojkine è un più strutturale bisogno di pulizia interiore, giustizia, ascolto e, appunto, visibilità. Mostrare quelli di cui in genere non si ricorda nessuno, di cui nessuno vuole ricordarsi. La storia di Souleymane non ha solo bisogno della dignità, del controllo e dell’ostinata volontà di Abou Sangare. Deve anche stargli accanto in ogni istante della sua vita, nel corso di tre giorni che sono il riflesso e la sintesi di una vita che ne contiene tante, le vite delle donne e degli uomini dimenticati di ogni genere e grado. Il film diluisce l’esistenza del protagonista in una collezione di fatti, inconvenienti e digressioni, dai problemi sul lavoro alle ansie burocratiche all’eco sentimentale di quelli rimasti a casa (la madre, la compagna). Costruisce una viscerale sensazione di immediatezza richiamando simboli e suggestioni del grande cinema americano, urbano e sporco, di qualche tempo fa ma anche più recente.
La visibilità del protagonista è solo il primo passo di un percorso più strutturato e necessario, che il film affronta riscrivendo un po’ le regole del moderno cinema sociale, cui è legato da una provocatoria ambiguità. Se la macchina da presa di Boris Lojkine non si allontana mai dal sudore e le speranze di Abou Sangare è anche per sfidare una retorica vittimistica compiaciuta e superficiale, che “schiaccia” l’individuo in una pericolosa logica bidimensionale. Nei discorsi politici, nei media, il ritornello è sempre lo stesso: migrante, clandestino, illegale, disperato. Souleymane non è disperato, non è un eroe, non è un migrante, non è un africano. È un giovane uomo, un progetto di vita a tre dimensioni. Il mondo lo inchioda nella dimensione del bisogno e della vulnerabilità come non ci fosse altro e ne fa una mezza figura.
È il lato oscuro della luna, la ricostruzione dell’umanità perduta, l’ossessione cinematografica di Boris Lojkine. La risposta all’indifferenza e alle strumentalizzazioni mediatiche, politiche e, perché no, anche cinematografiche. Al suo film non manca quello che forse fa difetto agli ultimi Dardenne, la volontà di allargare lo sguardo anche al di là del protagonista, mostrando le ragioni, le difficoltà e le frustrazioni degli altri. Souleymane chiede, ne ha diritto, a una società ingiusta, che oltre un certo limite non può spingersi a soddisfarlo, perché è piena di problemi. È il doppio riconoscimento, di un’umanità a tre dimensioni e delle complessità delle strutture sociali, a strutturare La storia di Souleymane. Ha un’esteriorità elettrica, nervosa, magari non così originale e di non semplice lettura, come nel caso del volutamente ambiguo finale. Ma le vere ricompense sono sotto la pelle. È lo spirito del film, il pensiero, a fare la differenza.
La storia di Souleymane: conclusione e valutazione
La forza nervosa della messa in scena sposa la solidità delle argomentazioni. La storia di Souleymane non è ideologia buon mercato, è cinema. È montaggio, regia, interpretazione, ritmo serrato e volontà di scalfire la superficie del puro intrattenimento con una profondità di pensiero che non schiaccia l’emozione. Boris Lojkine non dà lezioni, racconta una storia. Il rigore cronachistico, la velocità della narrazione, aiutano lo spettatore a non sentirsi oppresso dalla complessità dei problemi. Il buon cinema è sempre questione di equilibrio. La corsa contro il tempo di Souleymane è spettacolo con qualcosa da dirci. I due piani comunicano e a dare coerenza c’è uno sguardo d’autore che sa cosa vuole: garantire visibilità al mondo e alle persone per cui prova interesse. Il cinema sociale non è un genere di facile lettura e di ancor meno facile realizzazione. La storia di Souleymane riesce a essere buon cinema sociale perché non si sforza troppo di esserlo.