Envidiosa: recensione della serie argentina su Netflix

Un dramma esaminato (ma con giusta indulgenza) di un sentimento universale poco rappresentato e di una società ‘isterica’ dominata dall'impellenza performativa, dall'ansia dei confronti e dal desiderio mimetico. 

Alla vigilia del suo quarantesimo compleanno, Victoria (la protagonista di Envidiosa interpretata da una straordinaria Griselda Siciliani, che dimostra di conoscere la materia e di governare il mestiere), professione arredatrice con il rimpianto di non essere diventata architetta, lascia, con l’unico di obiettivo di provocarne una reazione, il compagno con cui conviveva da dieci anni: lui parte per una vacanza consolatoria insieme agli amici e ritorna con l’intenzione di sposarsi. Sì, ma non con lei, bensì con una ragazza brasiliana più giovane, di cui rapidamente si è acceso e per cui ha fatto in un attimo tutti quei passi da cui si era ben guardato nei tanti anni di relazione con la sua ex partner. Quest’ultima va in crisi e la sofferenza non se la tiene affatto dentro: tra lamentele, piagnistei e (spesso divertenti) strepiti, il sintomo è ‘isterico’ quanto la struttura psichica che lo adotta per esprimere il malessere di fondo, la sostanziale ignoranza di ciò che si vuole autenticamente, e non solo per sentito dire o per visto fare

Envidiosa: una serie argentina dalla scrittura brillante, tra realismo e grottesco, con protagonista un’adorabile nevrotica.

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Al di là delle rivendicazioni ora teatrali ora querule, Victoria è infatti una donna – come tante, oggi e ieri – votata ‘programmaticamente’ all’insoddisfazione: benché lei si ostini a credere di essere vittima di una congiura superiore, bersaglio di una serie di sciagure, il suo male se lo procura da sola prendendo e a prestito aspirazioni e desideri dalle altre donne, spesso amiche, che talvolta invidia ferocemente, nello schietto rifiuto a farsi carico di un’esistenza più autenticamente allineata allo slancio soggettivo, più all’altezza – o, al contrario, salvificamente, alla bassezza – di un gusto, o meglio di un appetito, proprio. In realtà, e qui risiede una delle tante sottigliezze di una narrazione a episodi che, con levità, offre numerose occasioni per riflettere, Victoria più che invidiarecosa che certamente fa –, vuole essere invidiata: il suo rammarico riguarda la percezione di essere poco invidiabile agli occhi delle altre donne. Anche quando potrebbe abbandonarsi a un affetto, al sentimento antepone la ragion di status, l’attaccamento nevrotico non solo all’ideale dell’io, ma a un vero proprio culto dell’Io, a un fondamentalismo egotisco. Non vuole davvero ‘vedere’ le opportunità che ha e che potrebbe cogliere per risollevarsi perché preferisce all’apertura al nuovo il disco rotto (e chiuso) di una continua recriminazione d’indesiderabilità: viene anche il dubbio, a seguirne le gesta, che sentirsi poco desiderabile (dagli uomini) e invidiabile (dalle altre donne), più che dipendere da un mancato sguardo paterno avvalorante – questione che pure la serie affronta –, provenga da una scarsa disposizione a desiderare lei per prima, da una scarsa disposizione persino a invidiare, lei per prima, qualcosa che valga la pena di invidiare perché lo si desidera davvero e non perché lo si dovrebbe desiderare, secondo un imperativo superegoico di omologazione.

Di grande successo nei Paesi latinoamericanidel resto, è una serie argentina con una produzione peruviana –, oggetto di un piccolo culto tra gli Europei che l’hanno scovata (nel catalogo Netflix, in cui è disponibile dallo scorso 18 settembre) e che le hanno dato una chance, Envidiosa comunque divide: chi l’ha vista o l’ha adorata o l’ha detestata; più difficile imbattersi in qualcuno che ha percorso la via di mezzo. Chi scrive rientra nella prima categoria: la serie, dodici episodi di mezz’oretta ciascuno, si sorregge su una scrittura brillante di marca spiccatamente autoriale, con punte di grottesco almodovariano, che cesella psicologie realistiche e le assegna a fisicità altrettanto realistichenessun personaggio, né femminile né maschile, risponde a iconografie patinate o idealizzate, realisticamente non sostenibili – concedendo largo spazio a un sentimento molto umano, spesso femminile (e dovremmo chiederci perché), e tuttavia spesso socialmente censurato, l’invidia appunto, che è oggi uno dei pochi tabù superstiti nelle nostre società (apparentemente) progressiste in cui tutto è ‘sdoganato’ o ‘normalizzato’. L’invidia sembrerebbe invece il peccato capitale più grave o, se non il più grave, quello ancora oggi meno confessabile: a nessuno fa piacere circondarsi di chi tifa (segretamente) contro e a nessuno, altrettanto, fa piacere scoprire in sé qualcosa di invidioso o, peggio, come avviene per Victoria, di affatto invidiabile.

Eppure la protagonista di Envidiosatitolo conservato rigorosamente in originale, e possiamo sentire anche solo leggendolo la serpentina sibilante spagnolanon è soltanto un’invidiosa, ma anche una donna goffamente vitale, vibrante nelle sue contraddizioni, mobile nei suoi ambigui sentimenti per le amiche e la sorella, che ama e nel contempo odia, soprattutto quando vanno avanti e lei resta indietro, quando trionfano e lei capitombola, quando portano a compimento progetti di coppia e lei si ritrova sola con un pugno di mosche di cui lamentarsi con la sua imperturbabile psicoterapeuta. Gli aspetti sgradevoli della sua personalità convivono con la vivacità dei suoi moti, con i (neanche) tanto segreti sospiri mentre procede a tentoni nell’esistenza, mentre, bene o male, prova a venirne a capo, in qualche modo, tra molte inerzie, persino a cambiarla.

Envidiosa: valutazione e conclusione

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Il personaggio di Victoria, suscettibile di reazioni differenti, dall’insofferenza all’antipatia o, al contrario, alla partigianeria più incondizionata, dà prova di una vivezza, di una vividità e di una veridicità che sempre più raramente troviamo nelle rappresentazioni filmiche o seriali. Può funzionare anche come test: se avvertiamo fastidio di fronte al suo egocentrismo, forse si tratta del segnale che i primi egocentrici siamo noi, che siamo noi, per primi, quelli che fatichiamo ad accettare i lati spiacevoli di noi stessi, che siamo noi i primi a disgustarci delle nostre vanità, dei nostri egoismi, dei nostri profondi infantilismi. Victoria libera, senza chiedere scusa al suo pubblico, nella storia, e di rimbalzo sullo schermo, la sua immaturità: strilla per essere riconosciuta e a questa richiesta di riconoscimento dedica tutte le sue energie consce o inconsce, senza considerare né i bisogni degli altri né la parte di responsabilità personale nella propria frustrazione. La serie mostra, in modo meritoriamente verosimile, come un percorso psicoterapeutico non proceda linearmente né sblocchi per miracolo situazioni stagnanti: ciascun cambiamento avviene inavvertitamente, per piccole torsioni e per scorrimenti in avanti ancora più impercettibili. Anche il finale di stagione, che rilancia a una prosecuzione naturale, di fatto già data per certa, suggerisce che i nodi da sciogliere, per Victoria, sono ancora tanti e che ogni automatismo di comportamento resiste testardamente, quasi per azione meccanica, alla sua risoluzione: ci vuole pazienza. 

Envidiosa conquista allora proprio perché osa ritrarre, con indulgenza, ma senza compromessi moralistici, una donna che si sente minacciata dal successo delle altre donne, che preferisce aver ragione che provare a essere felice, che fatica a prendersi la responsabilità del prolungamento fuori tempo massimo di un’infanzia, la sua, che reclama ancora il soddisfacimento del bisogno di essere vista, dell’assillo della bambina che desidera essere desiderata e che può cominciare a desiderare a patto che ciò avvenga. Per questo, nessun uomo, sebbene amabile, si rivela abbastanza per rassicurarla della sua amabilità: né l’ex pantofolaio né il dongiovanni fascinoso e di successo né il ragazzo ‘analogico’ della porta accanto. I tre protagonisti maschili della serie, che si contendono, se non tutti l’amore, senz’altro le attenzioni di Victoria, non corrispondono a esigenze di tipizzazione, ma rimestano cliché collaudati del rom-com e tratti diversi di mascolinità contemporanea, tra narcisismi, sensibilità sfaccettate e più o meno nascoste fragilità. Alla prossima stagione sapremo (forse) chi, di loro, la spunta. Nel frattempo, la raccomandazione è di godersi – goderci – l’eccentricità di Envidiosa e di usare la serie anche come specchio: attraverso i suoi dodici episodi, cercare di capire qualcosa di noi e chiederci a cosa servano i nostri ‘altri’ amati e odiati, se a restituirci un’immagine gradita o il grado del nostro successo, se per superarli, mentre cerchiamo di evitare chi siamo, o per affiancarli, sorpresi da desideri risparmiati dal paragone che insieme li riguardano e non li riguardano. 

Regia - 4
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 4
Recitazione - 4
Sonoro - 4
Emozione - 4

4

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