The Dead Don’t Hurt: recensione del film western di Viggo Mortensen, da Roma FF19

Mortensen rilegge l’ultimo Eastwood, quello più crepuscolare e malinconico, per un western che al racconto di morte, preferisce l’amore e la sopravvivenza al dolore. In sala dal 24 ottobre

Perché sei andato a San Francisco? domanda Vivienne (una splendida e magnetica Vicky Krieps) a Holsen (Viggo Mortensen sprofonda sé stesso nell’etica e nella morale di ferro, del cowboy selvaggio e in definitiva amorevole del vecchio West) e lui le risponde: “Per vedere dove finiva il mondo”. È sufficiente questo scambio di battute per inquadrare fin da subito, lo spazio autoriale e creativo all’interno del quale è radicato e si muove con estrema precisione e sicurezza The Dead Don’t Hurt, il secondo lungometraggio da regista di Viggo Mortensen, qui anche interprete, dopo lo splendido Falling – Storia di un padre.

Lo spazio è quello dei grandi western di una volta, sul cowboy malinconico e laconico, che è stanco di uccidere e desidera soltanto vivere, scoprendo la bellezza della serenità, dell’amore e della famiglia. Pur covando nel profondo, numerosi tormenti e irrefrenabili istinti di morte, che siano di vendetta, oppure di rivalsa. Mortensen guarda all’Eastwood de Il cavaliere pallido e ancor più de Gli Spietati nel dar forma al suo Holger Olsen, cowboy danese in terra americana. Eppure, il reale elemento d’interesse del film, non è Olsen/Mortensen, piuttosto Vivienne Le Coudy, protagonista assoluta di The Dead Don’t Hurt, che Vicky Krieps interpreta impeccabilmente, rendendola fin da ora, una delle figure femminili più interessanti e forti della storia del cinema western.

La donna che sopravvive al dolore, osservando l’amore

The Dead Don’t Hurt recensione cinematographe.it

È interessante che Mortensen dia inizia al suo secondo lungometraggio da regista con un momento apparentemente conclusivo, la morte. Non la sua, ma lo scoprirete. Per poi ripercorrere a ritroso, accadimenti, torti, violenze e dolori di un’intera vita, che nonostante tutto non ha mai scelto di arrestarsi, guardando sempre avanti e addirittura in volto i suoi artefici e carnefici. Qui non conta chi spara e uccide più rapidamente, nemmeno chi riesce ad essere più crudele e spietato. Piuttosto chi nonostante il dolore, sceglie di resistere, vivendo appieno per quanto possibile un luogo colmo di pericoli, imprevisti, caos e amori, come il selvaggio West.

Non è mai troppo tardi per ricominciare. Holsen e Vivienne lo sanno bene e decidono di farlo, partendo insieme alla volta della frontiera, fino a raggiungere una casetta in legno apparentemente abbandonata, desertica e solitaria, sulla cima di una valle e di una città, il cui controllo è sfuggito di mano da tempo ai suoi sceriffi, che hanno preferito il denaro alla giustizia. La riflessione sulla corruzione morale torna incessantemente e sotterraneamente nel corso del film, basti pensare all’addio di Olsen e a quel denaro restituito, dapprima rifiutato e poi meticolosamente raccolto. Mortensen ricorre in quel caso ad un’inquadratura simbolo. Il dettaglio sulla mano, che stringe avidamente monete e banconote, affamata e mai sazia. Quella sì realmente spietata e crudele.

Proprio in nome di una moralità di ferro, il cowboy di Mortensen, pur amando perdutamente, non può rinunciare alla guerra. La stessa che la Vivienne di Krieps definisce a più riprese “la sua guerra”, sottolineando il carattere personale della faccenda e la necessità di quell’uomo, di darsi totalmente alla causa, mettendo in pericolo la propria vita e così chi è rimasto ad aspettarlo, attenendo il suo ritorno nella valle, Vivienne.

I pericoli sono molti e appena dietro l’angolo, o meglio, la porta. Restano in silenzio, pronti all’agguato, poiché tutto nel buio è concesso, specialmente se hai in mano la città. The Dead Don’t Hurt si fa ben presto riflessione sull’incapacità del singolo, di far sentire la propria voce e ribellarsi alle ingiustizie di un sistema malato e controllato da chi è più forte, dunque consapevole che se farà del male, resterà impunito. Eppure il centro resta un altro, la donna che sopravvive al dolore, senza smettere mai di osservare l’amore. Quello sconfinato che si dà ad un figlio. Quello cieco che si dà ad un marito.

The Dead Don’t Hurt: valutazione e conclusione

L’opera seconda di Viggo Mortensen, riesce a compiere quel passo in più che Falling – Storia di un padre faticava ad intraprendere, ossia pescare nella memoria cinematografica di un genere estremamente ricco, sfaccettato e importante, ritrovando un’impronta profondamente personale, precisa e radicata. Tanto in un passato ormai riconosciuto, quanto in un presente in continua evoluzione, eppure sempre più definito, soprattutto in termini di differenze di genere, riscatto femminile e rieducazione dell’uomo alla società e all’amore.

The Dead Don’t Hurt potrebbe dunque apparire come il western più drammatico, realista e lucido del momento, rispetto a ciò che quotidianamente ci ritroviamo a vivere, figli di una società che ci ha insegnato fin troppo tardi l’insensatezza delle differenze di genere e la necessità di ascoltare e ascoltarsi, amando gli altri e sé stessi allo stesso modo. L’Holsen di Mortensen compie il medesimo percorso, perdendo l’amore, per poi ritrovarlo, senza più lasciarlo andare. Il passaggio attraverso la morte risulta necessario, proprio in nome di un’identità incancellabile, propria del cowboy del selvaggio west e forse perfino dell’uomo moderno.
Alla vendetta però, ancora una volta, sopravvive l’amore.

The Dead Don’t Hurt è al cinema dal 24 ottobre 2024, distribuito da Movies Inspired.

Regia - 4
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 4
Recitazione - 4
Sonoro - 4
Emozione - 4

4