Il treno dei bambini: recensione del film di Cristina Comencini da Roma FF19
Con Serena Rossi e Barbara Ronchi, regia di Cristina Comencini. Il treno dei bambini, su Netflix dal 4 dicembre 2024 dopo il passaggio alla 19ª Festa del Cinema di Roma, è un racconto commovente che parla d'amore, miseria, guerra e solidarietà.
Non esiste sacrificio più grande di quello di cui ci parla Il treno dei bambini. Adattamento per il grande schermo – in realtà piccolo schermo, perché arriva su Netflix il 4 dicembre 2024 – del romanzo del 2019 di Viola Ardone, regia di Cristina Comencini e un cast di pregio: Serena Rossi, Antonia Truppo, Francesco Di Leva, Barbara Ronchi e il giovane Christian Cervone nella parte di Amerigo, il protagonista (da grande lo interpreta Stefano Accorsi) diviso tra due mondi, due cuori e due vite. Oltre l’eleganza della confezione e l’intelligenza non leziosa del film in costume – siamo negli anni dell’immediato dopoguerra, tra Napoli e l’Emilia-Romagna – oltre la denuncia delle storture e le atrocità della guerra, il film è la storia di un sentimento e dei protagonisti del sentimento: una madre e un figlio. Cristina Comencini dedica il film a tutte le mamme e tutti i bambini colpiti da tutte le guerre. Alla Festa del Cinema di Roma 2024, sezione Gran Public.
Il treno dei bambini: due epoche, due versioni dell’Italia, due madri. Lo stesso figlio
Dove siamo? A Napoli, nel 1946, poco dopo la fine della guerra. In compagnia di chi? Di madre e figlio. Si chiamano Amerigo (Christian Cervone) e Antonietta (Serena Rossi). Dov’è il padre? Se l’è preso la guerra. Il treno dei bambini è un film in viaggio. Gli ambienti sono il calore e l’estrema miseria napoletana del primissimo dopoguerra, dalle parti dei Quartieri, come li chiama Antonietta senza bisogno di aggiungere altro. E l’inverno – che nasconde promesse di riscatto, civiltà e progresso – dell’Emilia-Romagna. I tempi, perché nell’ossessiva dualità della storia non sono solo gli sfondi a sdoppiarsi, corrispondono al 1946 e il tardo XX secolo, quando il giovane Amerigo, che ora è cresciuto ed è diventato un violinista di successo (Stefano Accorsi), riceve per telefono una notizia che lo costringe a riesaminare con cura il suo passato e le scelte che lo hanno definito.
Cristina Comencini racconta in flashback l’intervallo di pochi mesi, ma decisivi, nella vita di Antonietta e Amerigo. Un’immersione nel passato talmente profonda da farne, nuovamente, il presente. A Napoli madre e figlio faticano a mettere insieme il pranzo e la cena. In giro per casa ci sono conoscenze discutibili come Francesco Di Leva e Antonietta sa che la situazione non è delle migliori per crescere il bambino. L’insperato aiuto, che per lei è una rinuncia dolorosa ma forse necessaria, le arriva da un progetto del Partito Comunista, proposto da una delle responsabili della federazione napoletana (Antonia Truppo). È il “treno della felicità”, che raccoglie bambini dalle zone disagiate del Mezzogiorno italiano e le porta su al Nord, a vivere per un po’ con famiglie del posto, per studiare con calma e respirare un’aria diversa.
Il treno dei bambini è la storia di una grande miseria, del dolore e della guerra, ma è anche la storia della generosità e delle scelte che si fanno per le persone che si amano. La storia di una madre e un figlio. Meglio: di un figlio e delle sue due madri. Il treno diretto in Emilia-Romagna porta Amerigo da Derna (Barbara Ronchi), che non doveva partecipare al progetto ma per problemi della coppia originale è costretta a subentrare, controvoglia. Ex partigiana, attivista PCI, non ha mai pensato a se stessa come a una madre, al punto che per far addormentare il bambino non trova di meglio che leggergli la storia del sindacato in Italia. Il tempo e l’abitudine, l’incontro tra le due solitudini, di Amerigo strappato alla sua casa e di Derna, spiritualmente ospite a casa sua, costruisce un sentimento bellissimo. Il treno dei bambini raddoppia ostinatamente la sua posta in gioco. Due tempi, passato e presente. Due madri, Serena Rossi e Barbara Ronchi. Due Amerigo, adulto e bambino. Due case, Napoli e il Nord. Trovare il modo di far quadrare i conti, per i personaggi, non è facile.
Una scelta radicale, dolorosa, piena di coraggio
La guerra è il convitato di pietra, la presenza impalpabile che condiziona: c’è, ma non si vede. Il treno dei bambini racconta qualcosa di molto intimo misurando l’impatto del mondo sui sentimenti e le scelte delle persone. Parla di miseria, del divario Nord-Sud, delle tante Italie al posto dell’Italia unita, dei sacrifici e della guerra, della miseria, ma anche di solidarietà e generosità. Cristina Comencini spiega il cuore dell’uomo raccontando il mondo e viceversa. Amerigo vive a Napoli, si trasferisce in Emilia-Romagna e poi torna a Napoli. Torna cambiato, perché ha sperimentato il contatto con un mondo diverso e capisce che non può riprendere la vita di prima. Lo capisce con l’istinto e l’impazienza che appartengono alla sua età, Antonietta e Derna invece con una lucidità dolorosa e commovente. C’è un paradosso tremendo e molto interessante che anima Il treno dei bambini: la flessibilità dei bambini, la capacità di crescere, adattarsi e prendere il meglio dalle cose. E insieme la pelle dura delle madri.
Serena Rossi in maniera più esteriore, intensa, Barbara Ronchi in modo più trattenuto ma non meno commovente; sono differenze non così importanti. Il sacrificio delle madri – è la cosa più grande che si possa immaginare – è allo stesso tempo una tremenda sconfitta e una grande vittoria. Il film si sforza di esplorarne, da ogni angolazione, la sconcertante ambiguità: la guerra, la violenza e la povertà costringono Derna e Antonietta a una scomodissima scelta d’amore. Nel loro coraggio trovano riscatto e nobiltà. Quello che si impone, a tutta evidenza, come un fallimento e un vuoto si trasforma, perché così ha voluto l’amore di una madre per suo figlio, in una straordinaria e malinconica vittoria. L’immersione nel passato serve a Amerigo per ritrovare quella parte del suo passato frettolosamente archiviata e per capire il senso e la portata del sacrificio: due madri ne hanno fatto l’uomo che è diventato.
Il treno dei bambini è al meglio quando si concentra, con tenerezza non scevra d’ironia, a raccontarci l’incontro tra i bambini del Sud e il Nord misterioso. È quasi fantascienza, riletta secondo i canoni della commedia di costume: differenze apparentemente incolmabili di lingua (i dialetti), abitudini, mentalità. L’istinto generoso di quell’Italia – e oggi, invece? – permette di superarle. Il ritorno di Amerigo a Napoli, quello che succede dopo, il film lo sbriga frettolosamente. È funzionale, la fretta, al rimpianto del protagonista, al desiderio di ritrovare il tempo perduto e fare pace con il passato, ma Il treno dei bambini da quel momento non riesce più a mantenere un rapporto equilibrato con il tempo e questo squilibrio non gli giova.
Il treno dei bambini: valutazione e conclusione
Buon sangue non mente. È un’eredità professionale, empatica, che apparteneva al papà Luigi e che Cristina Comencini non ha smarrito: la capacità – se non sembra troppo retorico, il dono – di lavorare con i bambini, mettendosi alla loro altezza e dalla loro parte per restituirne lo sguardo, la purezza dei sentimenti, la vitalità ma anche l’impazienza, i difetti. L’umanità, in una parola, evitando maldestri scimmiottamenti. Il film è abitato da bambini, non da attori bambini e questo è un grosso pregio.
Mancano minuti preziosi a Il treno dei bambini. Manca la seconda parte della storia, la riscoperta di sé di Amerigo su cui il film sorvola anche oltre il dovuto. La fretta con cui il bambino, tornato a Napoli, sceglie in un modo che cambierà la vita sua e delle madri, è comprensibile e giustificabile e suggerisce allo spettatore il senso di una scelta (materna) impossibile e dolorosa. Ma quella fretta andava raccontata meglio e il film non lo fa, consegnandosi, dopo una partenza interessante e una parte centrale ricca di dettagli e di piccole grandi commozioni, a un finale che colpisce meno del dovuto.