McVeigh: recensione del film con Alfie Allen da Roma FF19
Mike Ott torna a raccontare la provincia americana, tra figure ai margini e luoghi dimenticati, e lo fa seguendo quella che è stata la progettazione di uno dei più grandi attentati della Storia, quello del 19 aprile 1995 messo in atto da Timothy McVeigh, ex sottufficiale dell’Esercito degli Stati Uniti reduca della guerra del Golfo. Presentato nella sezione Freestyle alla 19ª Festa del Cinema di Roma, McVeigh vede nel cast l’attore Alfie Allen come protagonista, affiancato da Brett Gelman, Anthony Carrigan, Ashley Nenson e Tracy Letts.
Un superlativo Alfie Allen protagonista di McVeigh
Il 19 aprile del 1995 è una data tristemente nota nella Storia degli Stati Uniti. In McVeigh è il giorno dell’esecuzione di un condannato a morte che Timothy McVegh va spesso a trovare in carcere. Ma è anche quello dell’attentato nel quale saltò in aria un furgone parcheggiato davanti alla Alfred P. Murrah Federal Building di Oklahoma City e uccise 168 persone. Un atto terroristico legato a numerosi altri sanguinari eventi, in parte ancora avvolti nell’ombra. L’idea di dove, come, ma anche di perché colpire si fa strada insidiosa nella mente del protagonista, un magistrale Alfie Allen. McVeigh è un uomo che si sente tradito dal proprio Paese, quello stesso che ha servito per anni, un soldato che forse ha travisato da quale parte stare. Nel film si parla ed è chiaro, anche se non si vede, come tutto parta dall’assedio di Waco che Timothy dichiara di star seguendo da vicino. Nei suoi occhi non si legge rabbia, né furia omicida. C’è un odio muto, tacito, quasi calmo, un sospetto continuo nei confronti dell’altro, chiunque capace, nuovamente, di deluderlo, di promettere la libertà e poi di negarla.
Le motivazioni, affermate dallo stesso McVeigh, risiedono nella sua vendetta contro il Governo per l’assedio di Waco. E per tutto ciò che ne conseguì, e che vide, a detta di numerose teorie del complotto, alcune poi confermate, l’FBI chiarire di aver agito per difesa, in uno scontro a fuoco iniziato da parte dei così chiamati Davidiani. Timothy McVeigh compie così quello che lui definisce un atto di rivolta, di sfida e di attacco contro un sistema che considerava tirannico e che avevano portato al massacro di Waco e a molte altre morti innocenti. Il McVeigh interpretato da Alfie Allen è svuotato da qualsiasi emozione o sentimento che non sia la pianificazione meticolosa del proprio piano. Il Timoyhy protagonista non ha incertezza, non ha ripensamenti: è già passato quel momento, quando il film inizia. Timothy ha già perso tutta la fiducia: lui è ormai fisso, inamovibile, ostinato e bloccato. Il fine e lo scopo che lo muoveranno non potranno essere altro che quel terribile.
Esistere solo fuori dalla realtà
La fotografia di McVeigh, che mantiene lo sfondo fuori fuoco e nitidi i contorni dei personaggi è il totale irreparabile distacco che c’è tra lui, Timothy e il mondo. Lo smarrimento, precedente al racconto filmico, che il protagonista ha provato quando i fatti di Waco si sono rivelati incoerenti e confusi. La scelta, che è per lui un obbligo, un comandamento, un ordine verso se stesso e verso gli altri, è doversi vendicare, farsi sentire, non poter rimanere in silenzio. Per lui quello che accadde il 19 aprile del 1995 era logico, innegabile, ovvio, ma soprattutto sarebbe accaduto prima o poi, se non lui, qualcun altro lo avrebbe fatto. Tutto questo traspare, sempre più definito, dagli occhi di Alfie Allen, che lo rendere lampante, chiaro, innegabile. Sono i primi piani che riprendono il suo sguardo immobile, saldo, teso, incapace di cambiare espressione e di provare qualcosa. L’ambiente circostante di McVeigh è invece quasi sempre un campo lunghissimo e sopraggiunge come lontano, non sfondo, ma neanche luogo: solo teatro di un risentimento e un’intolleranza ormai scritte e inalienabili. Il McVeigh di Alfie Allen è lucido: dal suo punto di vista lui è dalla parte del giusto, diverso dagli altri solo perché abbastanza coraggioso e pronto per essere il primo, ma non l’ultimo, a passare dalla teoria alla pratica; all’azione.
McVeigh: valutazione e conclusione
Il film ha però un difetto, come è immobile e questo funziona, il personaggio di Alfie Allen, lo è anche il film. Ciò che McVeigh progetta nei giorni precedenti a quel 19 aprile, non si vedono abbastanza, non sono così chiari. È palese che abbia un piano, ma non è limpido quale sia e come lo stia organizzando. Non vengono spiegati i dettagli, che avrebbero reso invece l’intera narrazione più interessante, facendo entrare maggiormente nella trama oltre che nell’animo del personaggio. Sembra infatti tutto già visualizzato nella sua mente. McVeigh scorre così lento e inesorabile, e per quanto sia disturbante e inquietante entrare nei meandri della psiche di un uomo ancora innocente e incapace di vedere le conseguenze del proprio futuro agognato e atteso, il racconto appare piatto e spento e solo l’interpretazione di Alfie Allen a salvare il film e ad essere davvero degna di nota. Il tono e l’atmosfera, in linea con la personalità del protagonista, fa di McVeigh la fotocopia di un personaggio, di una figura che si è rivelata essere un folle omicida. Il film non ha quindi la stessa presa che avrebbe potuto avere se, oltre che fotografia e recitazione, anche regia e sceneggiatura, avessero dato modo di mostrare quello che è il motore del film: uno spazio, capace continuamente di allungarsi che intercorre tra il personaggio e la realtà, tra la distorsione e la verità, tra l’elucubrazione e la chiarezza dei fatti. In McVeigh l’uomo e il mondo, quello stesso mondo nel quale però non può più vivere.