Parthenope: analisi e spiegazione del film di Paolo Sorrentino

Tra realismo magico e allegoria, Parthenope accompagna l’eroina eponima in un viaggio che le permette di esplorare, grazie a incontri con personaggi singolari, il mistero di sé e di Napoli, città notturna anche quando c’è il sole: luogo di un desiderio che non può saturarsi, in cui si perde e insieme trova posto ogni cosa. 

Qualcuno ha scritto che Parthenope, il film più recente di Sorrentino passato all’ultimo festival di Cannes e nelle sale italiane dallo scorso 24 ottobre, è un’opera “eccessiva“, ma questo aggettivo si rivela ingannevole. Un po’ perché non è vero: non c’è nulla, in Parthenope, che sbrodoli, che tracimi, che esca dai ranghi apollinei; è anzi un film estremamente controllato nelle idee che libera, nelle soluzioni formali che adotta, nei dialoghi epigrammatici che lo costellano. Ma non si può dire che sia eccessivo anche perché sarebbe una tautologia: Parthenope è, più semplicemente, un film di Sorrentino. E in Sorrentino non c’è maniera ‘sorrentiniana’ perché ogni elemento del viaggio iniziatico di Parthenope e in Parthenope, in fondo, sgorga naturale, necessario, dalla mano del regista e dal suo gesto insolentemente ispirato: è la stessa mano invisibile – la mano, non di Dio, ma del Genio – che spinge invisibile quella della matriarca di un clan camorristico mentre a sua volta preme le natiche del figlio affinché concluda felicemente (e oscenamente, sulla scena, davanti a un pubblico) il coito con la rampolla di un’altra famiglia malavitosa e suggelli, così, nell’amplesso compiuto, l’alleanza criminale. 

Se c’è qualcosa che in Parthenope è in eccesso non è né la tracotanza autoriale né l’arditezza drammaturgica né la trasgressione della decenza, bensì lo spessore delle stratificazioni, la complessità che assumerebbe l’articolazione di un discorso interpretativo a margine della ricezione estetica del film. Noi ci proviamo, nella consapevolezza che il linguaggio, come disciplina di messa in parola dell’intuizione, non sarà mai tanto elastico da poter serrare e disciplinare del tutto la materia di cui questo film straordinario è fatto. Materia resistente, forse effettivamente eccedente, rispetto al campo di possibilità dell’esprimibile, Parthenope è infatti soprattutto un’esperienza percettiva che s’insinua progressivamente sottopelle, perturbando e seducendo – la seduzione è forse l’unico tema di un film senza temi – attraverso lo scandalo di un’assoluta, impenitente sfrontatezza del racconto.

La Partenopeide di Sorrentino: romanzo di formazione di una sirena, vergine e papessa. Dalla parte del mito e del desiderio.

Fotografo: Gianni Fiorito.

Parthenope di Sorrentino è il viaggio d’iniziazione di una fanciulla, nel suo percorso di maturazione da bambina a donna: il personaggio interpretato da Celeste Dalla Porta nasce in acqua e, per tutta l’esistenza, darà ragione al suo nome, quello della sirena che, frustrata per non essere riuscita a sedurre Ulisse, si suicida dando vita, nella dissolvenza del suo corpo, alla città di Napoli. Sarà infatti sempre una sirena, una “vergine” (parthenos, dal greco) e, come suggerisce un momento del film, anche una papessa: creatura desiderante – il sapere e il potere, degli uomini e sugli uomini – e desiderata – dagli uomini – che mostra la schiena perché “tutto il resto è pornografia”, femme fatale condannata ad affascinare e a sfuggire, a non lasciarsi prendere da chi la vorrebbe raggiungere, catturare, possedere: benché, come dice una battuta del film, tutti, prima o poi, siamo costretti ad abbandonarci, Parthenope non lo farà mai completamente. Riesce a mantenersi metaforicamente intatta, impenetrabile. 

È un mistero o una truffa? Entrambe le cose, ma, nel regalare l’esperienza del mistero, risparmia a chi entra in contatto con lei la sofferenza della truffa: l’intimità, una volta consumata, delude, perché rivela la distanza tra l’amore immaginato e l’amore vissuto, tra il mito sull’altro e la realtà dell’altro. Parthenope-film e Parthenope-personaggio sperano che il simbolo trionfi sulla carne suscettibile alla marcitura, parteggiano per il mito e per la bellezza infeconda dell’illusione, del segreto che rende possibile la generazione del desiderio che non si appaga di un oggetto preciso e, per non consumarsi, non genera neanche alcunché, ma resta puro movimento, anelito assoluto, spinta a continuare il viaggio, con il corpo e con la mente, ad andare di luogo in luogo, di amore provvisorio in amore provvisorio, senza fermare mai la sua ondivaga fuga verso l’altrove. Eppure, come c’insegna Freud, e sembra suggerire anche la fine del film, “ogni atto fallito è un atto riuscito”: rinunciando alla maternità, Parthenope è inseguita dal materno, che comunque non riesce a evitare nelle sue diverse forme (restando figlia, soprattutto, quindi passivamente sottoposta alla maternità fantasmatica di sua madre); sottraendosi all’amore ‘comune’ per alimentare nell’altro il desiderio incessante di amarla, sperimenta l’impossibilità di ogni rapporto, la solitudine come destino.

L’importanza di vedere: il desiderio di conoscere l’umano come desiderio assoluto.

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Parthenope seduce suo malgrado. Non può farne a meno, neppure se ne accorge. Seduce e respinge suo fratello Raimondo, giovane fragile e dissipato, fino alle estreme conseguenze; poi seduce e un po’ s’innamora – ma sempre troppo poco, o in questo poco c’è comunque un troppo”?  – del figlio della domestica di famiglia, Sandrino (alter ego di Sorrentino, che, in È stata la mano di Dio, diventa Fabietto, facendosi ugualmente, e non a caso, abbreviare in un diminutivo); flirta con il danaroso proprietario di un elicottero, amante di picnic a base di frutti di mare, a cui nega il bacio, come direbbe Recalcati, per “mantenerlo” – per mantenere vivo in lui il desiderio di baciarla –; infine si lega brevemente a un boss della camorra che la conduce, quale pupa del gangster, nei bassifondi di Napoli, prima ad assistere allo spettacolo tribale di un accoppiamento tra gli sposi appartenenti a due clan un tempo rivali e ora uniti da queste nozze ‘sacre’ (si veda l’inizio di quest’approfondimento), e poi a camminare nei vicoli della città, che, negli striminziti budelli che vi dipartono, ora calano ora sollevano il velo sulla miseria del sottosuolo. Parthenope può finalmente vedere quello che le è stato nascosto dall’agio altoborghese, può vederlo lei che, da studentessa di Antropologia all’Università Federico II di Napoli, si occupa proprio di questo: guardare, per vedere, l’umanità che occupa uno spazio e un tempo, contaminandoli ed essendone contaminata. La pulsione scopica è prevalente in lei: Parthenope vuole vedere a tutti i costi; vuole scoprire, conoscere. A questo suo desiderio, assoggetta tutti gli altri: anche la seduzione, per lei, è una forma di conoscenza, un modo di dominare l’altro, di poterlo osservare, di poterne indagare i moventi psichici, di poterlo studiare come fenomeno. 

Gli uomini ‘desiderati’ da Parthenope: omosessuali, castrati, mentori-padri

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Se Parthenope è desiderata da molti uomini, chi desidera Parthenope? Gli uomini che sembrano accenderla sono uomini che le sarebbero interdetti o che non possono amarla: John Cheever, attempato scrittore omosessuale che preferisce scrivere di giorno in stanze dense di ‘umori’ di “amori morti” e passeggiare la notte senza compagnia; il vescovo celebrante il miracolo di San Gennaro, un seduttore come lei, ma, a causa della sua posizione nella gerarchia ecclesiastica, anche un ‘castrato’ che s’aspetta che lei si conceda per originalità – “se mi rifiutassi, sarebbe scontato” – e a cui lei si concede perché invece lui le piace; tuttavia, anche in questo caso, il rapporto che si consuma tra i due non è penetrativo (genitale o anale), ma masturbatorio: simbolicamente, un godimento infantile, autistico. Durante l’orgasmo (di lei), il sangue del santo si scioglie: è il miracolo del piacere. Il piacere di un incontro più perversamente erotico che schiettamente sessuale. Infine, l’uomo del desiderio per eccellenza è il Professor Marotta: lui non la considera un oggetto sessuale, il piano in cui si gioca la loro relazione è asessuato, al di fuori persino delle dinamiche proprie dell’erotismo (e quindi del potere). L’avvicinamento tra il professore burbero e la giovane studentessa sfacciata con il gusto della provocazione è una concessione che il film fa alla tenerezza: ci mostra il disgelamento di entrambi, anime fredde, che avviene grazie a un’affinità elettiva, alla comune, insaziabile curiosità. Marotta riconosce in Parhenope il valore della sua soggettività, il rapporto problematico, ma vivo, con il sapere, l’apertura alla conoscenza come motore esistenziale. Parthenope elegge Marotta a mentore, a sostituto paternoil padre di Parthenope è una figura labile, depressiva, un morto in vita –; identificandosi in parte in lui, trova un appiglio identitario. Lo desidera perché desidera essere come lui: un uomo che ama il sapere più del potere (o il sapere come espressione di potere), un uomo che, come lei, ha con il sapere un rapporto erotico. 

Il figlio di Marotta: il ‘bambinone’ fatto di acqua e sale

Fotografo: Gianni Fiorito.

Solo quando la relazione intellettuale e umana tra Parthenope e Marotta si è già consolidata, il professore mostra all’ormai quasi collega il figlio a cui dedica tutte le sue energie fuori dall’orario di lavoro. Un figlio tenuto nascosto, protetto dagli sguardi indiscreti (e dalle lingue affilate), e tuttavia sinceramente, affettuosamente amato. Si tratta di un gigante, un bambinone corpulento dalla pelle sottile segnata da vene azzurrine in rilievo che ridacchia quando sente pronunciare parole scurrili alla tv.È fatto di acqua e sale”, spiega il Professor Marotta a Parthenope, vale a dire della stessa sostanza del mare, ma noi sappiamo, perché lo abbiamo ascoltato poco prima, che “Dio non ama il mare”. L’introduzione dell’elemento della disabilità, trasfigurata surrealmente in una deformità mostruosa quasi mitologica, è prassi squisitamente sorrentiniana: nella poetica del regista, l’amore risarcitorio per i non amabili e la pietas nei confronti delle creature degradate e difformi sono tra i più autentici sentimenti esplorati. Nel cinema di Sorrentino, come già nelle serie The Young Pope e in The New Pope, la rappresentazione della cristianità, una cristianità semipagana, opulenta, insieme ossimoricamente machiavellica e mistica, può essere facilmente scambiata per ammiccamento furbesco alla blasfemia, ma si tratterebbe di un errore di valutazione, di un fraintendimento fatale: la spiritualità che pervade i film di Sorrentino, e Parthenope tra gli altri, può essere codificata come cristiana non solo ereticamente. Il Dio convocato sulla scena da Sorrentino è il Dio cristiano: è il Dio che ama i peccatori e gli ultimi più dei santi e dei primi, il Dio che ama i malati e i dementi più dei sani e degli intelligenti. Il figlio di Marotta, gigante giulivo costretto all’immobilità per via del suo peso spropositato, è invisibile pur nella sua monumentalità di Buddha ciclopico: suo padre, a differenza degli altri, lo vede, lo riconosce, lo ama. Vuole che anche Parthenope lo faccia, che anche lei testimoni il prodigio dell’imperfezione, del difetto incorreggibile. Nella vita, c’è posto anche per l’irregolarità, per l’anomalia, per l’inciampo di natura: tutto questo è parte – non è ingombro, non è ostacolo – della grande bellezza dell’esistente. 

Le attrici disperate: Flora Malva e Greta Coo

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Fotografo: Gianni Fiorito.

Prima di rispondere alla ‘chiamata’ del sapere, di accogliere la sua vocazione di studiosa, Parthenope devia verso il sogno della recitazione, un sogno assegnatole dagli altri, più che proprio: tra le figure che incontra, perché la aiutino a realizzarlo, ci sono due donne. La prima è un’ex attrice, ora insegnante di recitazione, rimasta sfigurata in volto dalla mano maldestra di un chirurgo plastico brasiliano, Flora Malva: lei, per prima, le permette di vedere le sue bambole e l’ammonisce sulla persecutorietà dell’appello alla maternità (“La maternità mi ha inseguita dappertutto“, considerazione che Parthenope farà propria anni dopo, quando ormai alla maternità avrà rinunciato). La seconda è Greta Cool, attrice che è riuscita a riscattare le sue origini e a intraprendere una fortunata carriera lontano da Napoli, città da cui riceve un omaggio e che ripaga con un’invettiva carica di disprezzo. Entrambe queste donne, nonostante un passato di bellezza, rubata o appassita in fretta, sono disperate: la prima non esce mai di casa, si nutre di soli asparagi e brama di essere baciata ancora una volta, dopo tanti anni trascorsi senza che qualcuno desiderasse toccarla; la seconda nasconde vulnerabilità e ferite sotto una parrucca e dietro esplosioni divoranti di rabbia. Sono donne adulte, consapevoli della fugacità dell’avvenenza, profondamente sconfitte: attraverso di loro, verso le quali mostra la consueta curiosità, Parthneope comprende di non essere “abbastanza allegra” per il cinema.

Parthenope e Napoli; Parthenope è Napoli: la riconciliazione finale

Fotografo: Gianni Fiorito.

Il personaggio di Parthenope può naturalmente leggersi anche come allegoria della città di Napoli: come Napoli, è somma di contrasti, ingiudicabile e non giudicante, grave e frivola, determinata e inerte, traumatizzante e traumatizzata, curiosa nei confronti delle diverse possibilità dell’umano più di quanto non sia disposta a farsi conoscere lei stessa, a farsi scoprire da chi tenta di ridurne il magnetismo a regola, a schema, a legge definitiva. Napoli, come Parthenope, sfugge alla presa: in lei, coesistono tutte le identità e le sfumature sentimentali, ma ciò che la sostiene è un vuoto, il cratere di un vulcano, una porta, che non può essere attraversata, su un buio concavo in cui nessuna felicità o libertà sono forse possibili, ma tutto il resto sì. Il ritorno a casa di Parthenope, dopo aver insegnato per quarant’anni a Trento, chiude il film eponimo con una catarsi smorzata: Parthenope ritrova sé stessa nella sua Napoli, una Napoli esultante per lo scudetto, una Napoli tutta ‘azzurra’, come azzurri erano i costumi da bagno della giovane ‘sirena’, una Napoli fatata, quasi elfica, metafisica. A Napoli, dove tutto era cominciato, si arresta la fuga di Parthenope, si celebra, in un’atmosfera ovattata, la festa per una vittoria sportiva e la riconciliazione della donna con la sua città e, specularmente, simbioticamente, anche con sé stessa.