La coda del diavolo: recensione del film di Domenico de Feudis
Il secondo lungometraggio da regista di Domenico de Feudis, si muove abilmente tra i linguaggi del cinema action, servendosi di un Luca Argentero in grande forma, che non ha paura di sporcarsi a fondo, in una Sardegna cupa, rurale e disperata. Su Sky Cinema e NOW dal 25 novembre
Guardando al cinema ultimo nostrano, si ha l’immediata evidenza di una spaccatura profonda, che è tanto autoriale, quanto produttiva. Da una parte c’è chi batte nuove strade e percorsi stilistico/narrativi, dall’altra invece chi con pigrizia, non può far altro che rivisitare ancora e per sempre, tutto ciò che è già stato fatto, visto e sentito, senza mai guardare oltre. Poiché è più semplice e appetibile forse – o almeno così sembra – per il pubblico generalista. Appartiene alla prima classe d’autori Domenico de Feudis, che al secondo lungometraggio da regista, La coda del diavolo, dopo il thriller familiare a tinte horror Il Legame (disponibile su Netflix), si mette ancor più alla prova, adattando per il grande schermo (o piccolo, considerata la sua immediata e inspiegabile distribuzione su piattaforma), l’omonimo romanzo di Maurizio Maggi.
Luca Argentero e l’action, quello vero che ancora ci appartiene
A distanza di quattro anni dal precedente lungometraggio, de Feudis sveste i panni dell’autore horror, indossando quelli ben più scomodi, ambiziosi e adrenalinici del cinema di genere, gloriosamente action, laconico e spietato. Le abitudini però, così come le passioni, sono dure a morire. La coda del diavolo infatti, cela nelle sue primissime sequenze, frammenti d’inquietudine profonda e macabra, che allontanandosi per un attimo dai topos del cinema di genere, sembrano osservare veri e propri cult del cinema horror, come Non aprite quella porta e Wolf Creek.
Fino a svanire del tutto, lasciando campo largo, anzi larghissimo, ai linguaggi duri e puri dell’action, che uno straordinariamente efficace Luca Argentero – non nuovo a questo lavoro di fisicità, dopo Cha cha cha di Marco Risi e Il permesso: 48 ore fuori di Claudio Amendola – incarna appieno, senza mai risparmiarsi. È sorprendente infatti quanto Argentero riesca a far propri fino in fondo tutti quei silenzi, quella rabbia e così il dolore, che impediscono a Sante Moras di vivere. Un’alchimia perfetta e spaventosa tra queste due anime, colta con grande sapienza, tanto dallo stesso de Feudis, quanto dai suoi due autori Nicola Ravera e Gabriele Scarfone.
A differenza di recenti casi nostrani, sporadici senz’altro – tenendo ancora una volta in considerazione il fatto che l’action e il cinema italiano oggi, sembrino essere inspiegabilmente estranei l’uno all’altro – La coda del diavolo, non intende affatto risultare consolatorio nella sua esplorazione dei codici della violenza e del linguaggio stilistico e narrativo, che è inevitabilmente adulto, grezzo e sporco. Laddove spesso vi è consolazione rispetto al protagonista che vive (o sopravvive) al dolore, La coda del diavolo si insozza ancora di più, senza risparmiare il sangue e così lo sguardo di piena consapevolezza e brutalità, che Sante Moras rivolge in più occasioni a chi lo osserva realmente, leggendo le sue azioni per ciò che sono. Quelle di un uomo disperato, cui la vita ha tolto tutto, perfino il desiderio della sopravvivenza, cui però la fame di verità impedisce di svanire, permettendo alla libertà di farsi via via più spazio, fino al gran finale.
La coda del diavolo: valutazione e conclusione
Un cinema come detto laconico, fisico e spietato, che se allarga lo sguardo rispetto agli scenari rurali, cupi e inesplorati della Sardegna, attraverso i quali Sante fugge, tra corsi d’acqua e boscaglia – c’è perfino Rambo tra le numerose suggestioni interne al film -, li restringe però attorno ai rapporti spesso complicati, se non addirittura logorati tra gli uomini e le donne, che per ragioni differenti si legano a Moras.
Basti pensare ad uno dei rarissimi personaggi femminili del film, Fabiana Lai – Che brava Cristiana Dell’Anna, volto incredibilmente interessante del nostro cinema -, capace di una mutazione di sensibilità e comprensione totale, tanto interna, quanto esterna al film. Laddove infatti gli uomini di de Feudis si perdono, fuggono, sparano e uccidono, Fabiana Lai soppesa le parole, osserva i fatti, attende e ancor prima di agire, ne comprende le ragioni. L’intelligenza di scrittura è qui che risiede e così d’interpretazione.
Una cosa è certa, abbiamo bisogno di questo cinema. Forse è la consapevolezza a mancare, ma La coda del diavolo di Domenico de Feudis, Nicola Ravera e Gabriele Scarfone, può dire la sua. Guardando al Sante Moras di Argentero ritroviamo infatti il Jack Reacher di Lee Child e così una certa caratura Eastwoodiana sospesa tra western e action, capace di dar vita a personaggi incredibilmente reali, dalla morale di ferro, perciò pronti a tutti pur di giungere alla verità, perfino di uccidere e sporcarsi nell’animo. Proprio perché incorruttibili, proprio perché la vita ha tolto ogni cosa, ma non la libertà, non ancora. Di questi tentativi lamentiamo spesso una certa ingenuità. La rintracciamo anche nelle produzioni hollywoodiane, ma non sentiamo il dovere di sottolinearla. Ben venga dunque, poiché è intrattenimento, spettacolo e corsa adrenalinica. Teniamo d’occhio Domenico de Feudis e così Luca Argentero, che dalla fisicità brutale e laconica, può tirare fuori grandi cose.
La coda del diavolo è disponibile sul catalogo di Sky Cinema e in streaming esclusivamente su NOW, a partire da lunedì 25 novembre 2024.