Ponyboi: recensione del film di Esteban Arango dal TFF42
Ponyboi, basato su una storia vera e diretto da Esteban Arango, è stato presentato in concorso al 42º Torino Film Festival.
Ponyboi, diretto da Esteban Arango e basato sull’esperienza reale del personaggio protagonista River Gallo, nei panni, appunto, di Ponyboi, è stato presentato in concorso al 42º Torino Film Festival. Scritto dallo stesso River Gallo, e con nel cast anche Dylan O’Brien, Murray Bartlett, Victoria Pedretti, insieme a moltissimi altri, il secondo lungometraggio del regista colombiano segue un personaggio intersessuale che lotta per la sopravvivenza, e che vede sconvolto il proprio equilibrio a seguito di un affare di droga dalle conseguenze irreparabili. È per Ponyboi l’inizio di un viaggio pericoloso ed eccezionale, di un sorprendente tragitto di accettazione.
La quotidianità che in Ponyboi esplode in una pioggia di scintille
Sembra una serata come tante quella in cui Ponyboi si mette la sua divisa da e gestisce la lavanderia dove lavora con un impiego part-time e dove nel retro il proprietario Vinnie organizza squallidi appuntamenti tra droga ed erotismo. Ma quando qualcosa va storto e Ponyboi sente di essere di fronte a quella scelta che può cambiargli la vita, inizia un percorso ad ostacoli, fatto di esplorazione, consapevolezza e ricordi. Ponyboi era stato precedentemente catturato dalle note di I’m on fire di Bruce Springsteen, dall’ammaliante incontro con il seducente cowboy che lo incanta, al quale Murray Bartlett regala un’altra impeccabile interpretazione, e dalla meta di Las Vegas che, anche solo dal nome, è lo sfavillante centro di libertà, perdizione e vizio, dove poter essere senza pensieri. Costituenti di un segno del destino. Ponyboi è un film psichedelico, multiforme, variopinto, fluorescente, con un protagonista che porta la propria esperienza sullo schermo, dando vita a una performance sentita e vissuta, della quale si percepisce tutto il dolore, la precedente indotta rassegnazione e la rabbiosa tristezza covata nel tempo.
Giochi di luci e di ombre, cristalli di metanfetamine che uccidono, boss che non si lasciano intimidire e un personaggio protagonista con cui entrare in sintonia, avvertendone sempre più preponderante la solitudine, l’incertezza, la sospensione. Basti pensare alla scena in farmacia, dove all’umoristica situazione che vede Ponyboi in posa da conquista per ottenere i farmaci necessari, che può far sorridere, c’è la più palese totale rappresentazione di quello che il film racconta, insieme a una doppia cornice che va dal thriller al noir, senza mai dimenticare il prodotto di genere. Un tema delicato e fin troppo poco trattato, che non è strettamente legato all’orientamento sessuale. E che in Ponyboi è descritto attraverso uno stile elegante, dove le sensazioni più esili e sommesse mai vengono sovrastate dalla matrice più action né da quella più prettamente metafisica. Ponyboi è un film intimo, fatto di romanticismo e cinismo, di discreta dolcezza e di brutale amarezza, dove ogni personaggio cerca di vivere la propria versione, distorta, onesta o ideale di amore.
Ambientazione e periodo storico ben definiti
Il New Jersey di Ponyboi è quello dei primi anni 2000, dove si respira ancora il clima post 11 settembre, dove si parla di sindacato, scioperi e sfruttamento e dove forse ognuno, primo fra tutti Ponyboi, cerca di capire chi è e chi vuole essere. Le strade, i locali, l’affascinante cowboy che gli salva la vita, il diner trasognato e avversità mai risolte si susseguono nel viaggio di un personaggio che non solo deve fuggire da chi lo sta cercando per regolare i conti, ma anche dal suo sentirsi continuamente diviso. Assume testosterone e i suoi occhi si riempiono di lacrime, capelli ricci lunghi e trucco che fulgido e brillante, scintilla sotto le luci notturne di un mondo aspro e incattivito, che Ponyboi illumina con la sua sofferta naturalezza. Alla visione più utopista, trascendentale e onirica del film di Arango, si contrappone il crudo realismo del gangster movie, che si concretizza negli stessi luoghi, passando per le stesse vie e che trabocca violenza rompendo ogni argine. Ad esserne il simbolo un Dylan O’Brien strepitoso nei panni di un uomo viscido, feroce, misogino e psicotico che si aggira imprevedibile sulle tracce di Ponyboi, del quale è amante e protettore
Ponyboi: valutazione e conclusione
Ponyboi è un viaggio nell’interiorità, nel New Jersey e nelle sua limitazioni, nella propria identità e nel desiderio di definirla senza etichettarla, di distinguerla e sentirla propria. Un film che racconta innanzitutto un cammino di accettazione, dove quest’ultima ha più forme, più versanti, più rotte. Una notte fatta di rivelazioni personali e incontri immaginari, sublimi nella loro sovrumana poetica, e che sempre si riconducono a quella privata consapevolezza di Ponyboi, che acquista attraverso memorie che ha sempre avuto, ma che ancora forse non ha affrontato. La storyline familiare, la cui tragicità sovrasta qualche disattenzione e qualche momento che può sembrare poco approfondito, ha poi la sua perfetta e adeguata conclusione, nel nuovo viaggio che Ponyboi si appresta a fare, una volta conclusa quella notte folle e straordinaria che sembrava non finire mai. Gli occhi e l’espressività di River Gallo regalano al film una raffinatezza e una sensibilità che mai abbandonano lo spettatore. Perché le tematiche che sono alla base di Ponyboi hanno quel carattere di universalità che si ritrova anche nella dimensione più unica e privata del personaggio. Con punti di vista di vedere e vivere l’amore, che da un estremo all’altro, non si allontana dalle sottotrame del film. Non a caso il film è ambientato nel giorno di San Valentino.
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