Vena: recensione del film vincitore del Premio speciale della Giuria al TFF42
Un film impetuoso, fervido e vibrante.
Vena è il grande esordio della regista Chiara Fleischhacker, con protagonista un’ottima Emma Drogunova. Con un cast di supporto che aumenta credibilità e intensità emotiva, Vena è stato presentato in concorso al 42º Torino Film Festival, dove si è aggiudicato il Premio speciale della Giuria IWONDERFULL. Con al centro una donna che sta per diventare madre una seconda volta e una tossicodipendenza che torna con prepotenza, Vena è una storia di redenzione e rivalsa, un racconto martellante, acceso e immediato, dove la vita non fa sconti a nessuno.
Vena è come un fiume in piena
Vena è un film doloroso, ma delicato, dove angoscia, travaglio e fitte di un male fisico, che è l’inizio di quei morsi e quei patimenti della crisi d’astinenza, sono congiuntamente negli occhi della straordinaria attrice Emma Drogunova. Sempre al centro della scena, protagonista dell’immagine, sguardo che vede, segue e sceglie, piangendo lacrime dove non può intervenire. Se la messa in scena di Vena sembra non avere nulla di particolare, sono rivelatrici, e saltano all’occhio, la sceneggiatura e la regia, con un’interpretazione magistrale, conferendo quel palpabile livello di un cinema cupo, crudo, che nulla lascia all’immaginazione. Eppure la moderata costruzione della scena, permette a Chiara Fleischhacker di eccellere nella padronanza della macchina da presa, nei pochi movimenti e nella staticità della pellicola, statica come è la dipendenza all’inizio della storia: immobile, fissa e stagnante.
Non è importante saperne l’origine, capirne l’uso, nonostante la responsabilità genitoriale sia alle porte ed è già stata comprovata come difficoltosa e, per qualcuno, fallimentare, portando Jenny ad affidare il figlio già avuto a sua madre. Un dovere, un impegno, e una coscienza adulta e matura che per prima, danno modo a Jenny di iniziare quel cambiamento che in precedenza non è riuscita a fare. Al trucco sfatto, al corpo disidratato, all’ottica filtrata dal delirio dei cristalli di metanfetamina, e alle incommensurabili serate in sale asfittiche dove la musica suona assordante, si sostituisce un’accoglienza di una condizione che non è di benessere, né di armonia, e neanche di equilibrio, ma di serietà, affidabilità e rivendicazione di un divenire che non ha mai fine. Perché nella vita si cresce e ci si modifica molto più di una volta. Vena è al tempo stesso protetta e rinchiusa in una relazione fatta di passione, dolcezza e comune voluta alterazione della realtà. E dalla quale non vorrebbe allontanarsi.
Le figure di contorno e il loro legame con la protagonista
Ma è da tutto ciò che c’era ed era prima, che Jenny sente di dover prendere le distanze, non potendo liberarsi dalle colpe e non riuscendo a trovare un proprio riscatto nello stesso ambiente che l’ha gettata in un vortice sempre più buio e profondo. Se anche la rappresentazione dell’uomo, Bolle, che è il padre del figlio che lei sta per partorire, è insolitamente e, per questo apprezzabile, positiva nel rapporto sincero che li lega, è anche la dipendenza ad unirli. Ma per lei è più forte quella vita che porta in grembo, quel richiamo di opportunità che a nessuno vengono negate. Le ricadute di Bolle sono le risolutive e chiare scelte di Jenny. È un pugno nello stomaco la scena con l’ostetrica che, visitando Jenny, dice “il tuo bambino è in astinenza proprio come te“, illustrando poco dopo come avvenga l’apporto di nutrienti tra utero e feto, come da quel cordone ombelicale che lega madre e figlio passi tutto ciò di cui si fa uso, e quindi, in questo caso, anche la droga che si assume. Sostanze che sono nel film: nelle case, nelle macchine, nei bagni pubblici, nei parchi, e nelle “vene” del titolo.
Vena: valutazione e conclusione
Vena è infatti impetuoso, fervido e vibrante, insiste e non rinuncia a facendo trasparire tutti i rumori, i suoni, i sapori, risvegliando il gusto, il tatto e l’olfatto, nella mordente espressività di un film sensoriale fatto di percezioni e intenzioni. Se la maternità, la dipendenza e la figura femminile sono al centro di Vena, lo è anche il rapporto tra le due donne, Jenny e Maria, la sua ostetrica, due personaggi diametralmente opposti, uniti da quell’istinto materno inconfondibile e unico. Quella con Maria è la relazione interpersonale che Jenny ha al di fuori di quel mondo offuscato e confuso, frastornato dagli stimoli indotti dalle droghe. Ma Vena insegna e rispecchia anche l’ineluttabilità di un destino che si è cercato di sconfiggere, ma che spesso è il caso e il passato a condizionare. Ecco che, sul finale, Vena scende nei tortuosi anfratti e angoli di un sistema che non ha i reali mezzi per la salvaguardia di chi è costretto a dare alla luce un figlio passando da un carcere a un letto d’ospedale ammanettato. Quegli errori che concernono la legge, gli stessi che non tengono conto del reale dialogo interiore che Jenny ha fatto con se stessa, e che un’altra chance è pronta a sfruttarla al massimo.
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