I’m still here: recensione del film di Walter Salles sui Desaparecidos
I’m still here, dal titolo originale Ainda estou aqui, diretto da Walter Salles, è stato presentato in anteprima alla 81ª Mostra del Cinema di Venezia, dove si è aggiudicato il Premio Osella per la migliore sceneggiatura insieme ad altri premi collaterali. Ambientato nel 1971 in Brasile, I’m still here narra la storia vera dell’ex deputato Rubens Paiva, arrestato e trasferito in un centro di detenzione dal quale non farà più ritorno. Basato sul libro di memorie del figlio Marcelo, I’m still here racconta gli anni della dittatura militare instauratasi in Brasile che governò dal 1964 al 1985 e che portò, come in altri Paesi dell’America Latina, alla scomparsa di migliaia di persone arrestate e accusate di attività “anti governative” contro il regime e che scomparvero senza lasciare più tracce, noti con il termine di Desaparecidos.
I’m still here attraverso gli occhi di chi ha aspettato
Eunice, interpretata da Fernanda Torres, vive tra amore, famiglia, amici, serate e feste conviviali, mentre i figli crescono e abbandonano le mura domestiche. Eppure la tensione e la paura è immediatamente percepibile. Non nella tecnica, che cambia drasticamente: all’inizio il film è un racconto allegro e brillante fatto di una temperata mondanità, di pomeriggi in spiaggia, compleanni girati con cineprese d’altri tempi e immortalati da scatti spontanei o in posa; dalla prima metà invece il film diventa la crudele e spietata narrazione di ciò che è accaduto in Brasile e in gran parte dell’America Latina in quegli anni. Il motore di una macchina che si ferma di fronte casa, un elicottero che sorvola la città, telegiornali che parlano di terrorismo e posti di blocco dove si è impegnati in un’implacabile caccia agli oppositori del regime. Perché quel clima di panico e ossessione, che dapprima è nello sguardo, nelle pupille dilatate e nello sgomento della straordinaria Fernanda Torres, diventa poi l’arresto del personaggio di Rubens Paiva, chiamato ancora “deputato” quando ormai non lo è più. Portato via, mentre uomini armati, glaciali e indifferenti, chiudono le tende, impediscono di uscire, aprono cassetti e cercano qualcosa, sorvegliando chi aspetta, ignaro, un ritorno che tarda a realizzarsi.
Walter Salles si prende tutto il tempo necessario per mostrare la vita dei Paiva, una famiglia che vede una figlia post adolescente partire, vivere il sogno in una Londra libera che descrive con stupore e meraviglia nelle lettere che manda a casa, una figlia ancora giovanissima che viene fin troppo coinvolta, anche lei interrogata dalla polizia, e figli i più piccoli che festeggiano il ritorno della madre, chiedendosi dove sia il padre. Si entra così nel cuore e nell’anima di ognuno di loro sin da subito. Nella regia che mostra tavole imbandite, visi curati, colori nitidi che disegnano i contorni di un mondo fatto di emozioni pure e genuine, ancora non compromesse nella loro innocenza. Bambini, genitori e amici che ballano, si baciano, si abbracciano, sorridono e vivono alla luce del sole. Una vita dove sono insieme, uniti, si puà ridere, scherzare e parlare. I Paiva fanno parte di quella borghesia con una cultura intellettuale e politica, che è contro le mode, l’esibizionismo e il finto progressismo, e che mantiene le proprie idee e la propria contrarietà a quanto stava succedendo, ma solo all’interno delle proprie case. Dove armonia, intesa e affetto sembrano trasferirsi per osmosi dall’uno all’altro e dove la dittatura di un Paese condiziona momenti e situazioni, ma è ancora possibile sentirsi liberi di essere insieme.
Un film doppio che segue il corso del tempo e il passare degli anni
Ecco che l’arresto della figura di Rubens Paiva cambia volto, tecnica e recitazione e I’m still here oscilla tra film epico e documentaristico, tra family drama e racconto storico di denuncia. I turbamenti del personaggio di Eunice si rinnovano evolvendosi nel sospetto continuo, nel sentirsi sempre seguiti e osservati, nel non poter parlare al telefono, nel dover vivere lontano da occhi indiscreti. Nella decisione di cambiare casa e città, abbandonando tutto in nome di un equilibrio familiare che si può ancora ritrovare. Fernanda Torres, punto cardine di I’m still here e sia l’Eunice dalla vita amorevole e mite iniziale che la donna dimessa, in lutto e inerme, che trova poi in quel dolore la forza di combattere. La fotografia e la regia di modificano, preferendo alla scintillante luminosità dei colori caldi dell’incipit, tinte più cupe, avvolte da un’oscurità che è negli ambienti e nell’animo dei personaggi. Tra il centro di detenzione e il ritorno a casa, tracce di speranza riportano luce e calore, senza però mai tornare come prima, quando la vita di tutti i giorni non faceva presagire, e non era neanche premonizione di qualcosa che stava per accadere. Rendendo così il plot twist dell’arresto elemento narrativo essenziale che costituisce l’incidente scatenante, squarciando consuetudini e quotidianità.
I’m still here: valutazione e conclusione
Se con Garage Olimpo e Argentina, 1985, insieme a La notte delle matite spezzate e Post Mortem si è affrontato il tema dei Desaparecidos, I’m still here si sposta dalla parte di chi aspetta, di chi, prima cerca il distacco, la salvaguardia personale e la normalità raramente interrotta da un regime che, pur toccandoli, non li ha ancora travolti. E che poi da riservatezza e apparente lontananza da ciò che stava succedendo si trasforma nella lotta per la verità, per far sì che ciò che è accaduto, non accada più. Combattendo per i diritti umani e civili e perché, come si dice in un momento del film: “non si può non fare nulla“. Descrivendo e dando testimonianza di un periodo che viene sempre maggiormente trattato nell’audiovisivo e del quale ci sarà sempre sempre bisogno di parlare.
Perché Walter Salles non si limita a narrare quegli anni o il ricordo di quegli anni, mostrando, attraverso ellissi temporali, come la verità, le certezze e l’impossibilità di voltare pagina si siano protratte per anni. Come chi era scomparso anni prima ed è rimasto scomparso per sempre. Coloro che in I’m still here scompaiono, sono svaniti per decine di anni, se ne sono perse le tracce, e non si sono più ritrovati. Nel film le parole “è sparita” o “è sparito” acquistano un significato diverso. Sia quando vengono pronunciate all’inizio, con naturalezza, per riferirsi a figli in ritardo, amici impegnati o notizie che impiegano qualche giorno in più per arrivare, sia quando si trasforma nel senso più letterale del termine. Riferendosi ad esseri umani e anime che si dissolvono, che rimangono solo ricordi, foto, e figure che si muovono a scatti nei filmati girati con la cinepresa.
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