Kraven – Il cacciatore: recensione del film di J. C. Chandor

Entusiasma e coinvolge la regia di Chandor, meno lo script di Holloway, Marcum e Wenk, ancorato ad un’idea di vecchio cinema, o fumetto, qui di certo inefficiente. Saga familiare e caos sconclusionato, si fondono e confondono, conducendo il film di Chandor alle nebbie dell’imprevedibilità e del mancato soddisfacimento. In sala dall’11 dicembre

Di padri e figli. Lì dove tutto ha inizio, nella famiglia. È la prima volta che J.C. Chandor, regista estremamente interessante, formatosi tra spot pubblicitari e cinema documentaristico, sceglie di allontanarsi dalla dimensione controllata e minimalista dello sguardo che ha sempre fatto proprio. Fin dai tempi di Margin Call al ben più imponente e commerciale Triple Frontier. L’occasione è ghiotta e quando Sony Pictures Entertainment chiama, mettendo sul piatto il destino, dunque il futuro del Sony’s Spider-Man Universe, l’autore, perfino quello più impegnato e indipendente, non può far altro che rispondere. J.C Chandor dunque sale a bordo e senza pensarci un attimo, firma la regia di Kraven – Il cacciatore, su script di Matt Holloway, Art Marcum e Richard Wenk. Scordate l’impronta fumettistica, Chandor se ne disinteressa ben presto, al contrario dei tre autori, che cocciutamente inseguono tutt’altro stile, personaggio e idea narrativa. Com’è andata a finire? Non bene, o meglio, Chandor non perde lo sguardo, qualcun altro è probabile di sì.
Kraven – Il cacciatore è in sala da mercoledì 11 dicembre 2024, distribuzione a cura di Eagle Pictures.

Le colpe dei padri, non dovrebbero ricadere sui figli, eppure…

Kraven - Il cacciatore: recensione del film di J. C. Chandor

Chi ha dimestichezza con il suo cinema, sa molto bene quanto J.C. Chandor non si sia mai realmente interessato al racconto di grandi uomini. Preferendo di gran lunga l’uomo come tanti, che posto nella condizione di massimo stress, isolamento, violenza e pericolo, può rivelarsi perfino come qualcuno o qualcosa di nuovo. Una maschera, un nuovo volto, o addirittura una nuova identità.

Sono personaggi che mutano di continuo, mai maschere fisse. Ecco perché la relazione tra il cinema di Chandor e l’universo di Kraven – Il cacciatore, inizialmente non può far altro che stridere e apparire inefficiente. Ancor più se a firmare lo script non è lo stesso Chandor, ma un trio di autori, che dal fumetto, si è spostato oggi verso il cinema, convinto ingenuamente di poter mantenere il medesimo approccio. Spoiler, non è così.

Chandor dal canto suo ce la mette davvero tutta pur di concentrare la propria sensibilità autoriale rispetto a quella che è poi la traccia portante di Kraven – Il cacciatore. Dunque la dimensione familiare e la parabola sulle colpe dei padri, che inavvertitamente – o forse più che consapevolmente – ricadono sui figli. Coloro che dovrebbero negare il concetto d’appartenenza e divenire altro. I cacciatori/predatori non possono però divenire prede e il padre padrone interpretato da Russell Crowe, figura imponente (in ogni senso), questo lo mette in chiaro fin da subito. Non accontentandosi infatti d’essere un padre crudele come tanti, il Nikolai Kravinoff di Crowe, genera incessantemente lunghe ombre mortifere, persecutorie e asfissianti, rispetto ai destini dei due figli, Sergei Kravinoff/Kraven il cacciatore (Aaron Taylor-Johnson è sbigottito. Dovrà ancora abituarsi al nuovo costume? O Kick-Ass poteva bastare?) e Dmitri Smerdyakov/Camaleonte (che bravo Fred Hechinger!). Mai così diversi, mai così simili.
Ecco perché ancor prima d’essere un superhero movie, Kraven – Il cacciatore si fa riflessione violenta, cupa e disperata su ciò che sopravvive alla negazione dei legami di sangue, al rifiuto di non voler essere ciò che si è osservato nel corso della crescita. Rifiuto che poi inevitabilmente conduce lì, alla ripetizione di quel male che ha un nome e un volto, la famiglia, il padre.

Kraven – Il cacciatore: valutazione e conclusione

Sorprendentemente, pur essendo sotterranea e di secondo piano, la dimensione da mafia movie tanto cara al cinema di Chandor – ci ricordiamo del notevole 1981: Indagine a New York, geniale innesco e disinnesco della convenzionale struttura gangster? – sopravvive anche all’interno di Kraven – Il cacciatore, passando per dinamiche proprie delle famiglie mafiose, oltreché vere e proprie lotte tra clan, o meglio, gang, qui inevitabilmente futuristiche e mostruose. Al minimalismo stilistico e narrativo invece, viene preferito un approccio molto più direttamente spettacolare, caotico e di immediato intrattenimento. Non c’è tempo alcuno per i silenzi, figurarsi per il ritmo compassato, che meglio e più di qualsiasi altro elemento, ci ha permesso negli anni di conoscere a fondo il cinema di Chandor.

Qui tutto è frenetico, se non addirittura adrenalinico. Una folle corsa di botte, sangue – la violenza vorrebbe apparire efferata, pur essendolo solo in parte – e ironia. Ecco perché non abbiamo a che fare con un film che non funziona. Kraven – Il cacciatore è entusiasmante, ironico, pulp e coinvolgente nel migliore dei modi, lo si deve alla regia sapiente di Chandor e mai alla scrittura, che instancabilmente fa capolino, affossando quanto realizzato, due volte sì ed una no. L’impronta di Chandor rischia così di perdersi del tutto, ed è un gran peccato.

Regia - 3
Sceneggiatura - 1.5
Fotografia - 3
Recitazione - 3
Sonoro - 3
Emozione - 2.5

2.7