Una notte a New York: recensione del film di Christy Hall
La recensione dell’opera prima di Christy Hall con protagonisti due interpreti del calibro di Dakota Johnson e Sean Penn. Nelle sale dal 19 dicembre 2024.
Ci sono testi che nascono per il teatro e che per qualche neanche troppo strana convergenza astrale diventano poi dei film. È il caso di Una notte a New York, l’opera prima scritta e diretta da Christy Hall (autrice tra gli altri di It Ends With Us – Siamo noi a dire basta), che il pubblico italiano potrà vedere nelle sale nostrane grazie a Lucky Red a partire dal 19 dicembre 2024, dopo le anteprime alle ultime edizioni dei festival di Tribeca e Toronto.
Inizialmente concepita come pièce teatrale, Una notte a New York ha trovato la strada del cinema diventando un road movie ambientato nell’abitacolo di un taxi
Inizialmente concepita come pièce, Una notte a New York ha trovato la strada del cinema dopo essere stata inclusa nella lista delle sceneggiature non prodotte più apprezzate di Hollywood, dalla quale in un secondo momento è andata a pescare Dakota Johnson (che ne è anche produttrice), che a sua volta ha sottoposto personalmente il progetto a Sean Penn. Ed è così, con la partecipazione di questi due grandi nomi del panorama internazionale nei ruoli principali, che ha preso forma e sostanza sullo schermo il racconto di un viaggio in taxi dall’aeroporto JFK di New York a Manhattan che ha come protagonisti una giovane programmatrice, bella e assorta nei suoi pensieri di ritorno da una trasferta dalla sorella in Oklahoma, e un tassista schietto e senza peli sulla lingua di nome Clark. Lungo il tragitto tra la giovane e l’autista si instaura presto un rapporto di reciproca sincerità che li porta ad affrontare argomenti a volte frivoli e a volte spinosi, al quale un incidente e il traffico che ne consegue concederà un tempo supplementare. I due si sentono così liberi di affrontare temi importanti e molto personali per poi diventare intimi: relazioni, amore, sesso, passato e presente. Clark e la ragazza si raccontano, svelano dettagli della loro storia personale e con grande onestà mettono a nudo le proprie fragilità.
Non è la prima volta che un taxi si tramuta in un confessionale per dare vita a un incontro/scontro dialettico tra i personaggi
Il contesto apparentemente ordinario di un’automobile diventa di fatto il luogo di un dialogo intimo e denso, fatto di piccole verità e grandi rivelazioni. Non è la prima volta che un taxi si tramuta in un confessionale per dare vita a un incontro/scontro dialettico, basti pensare a Collateral, Taxi Lovers, Taxi Teheran e al nostrano Il tassinaro con il mitico Albertone alla guida per le strade della Capitale. Non è quindi nella situazione e nell’ambientazione che vanno ricercati i motivi d’interesse nei confronti dell’operazione. Cinematograficamente parlando i suddetti titoli lo dimostrano, se poi allarghiamo la cerchia a tutti quei film che hanno nell’abitacolo di una macchina e nei sedili anteriori e posteriori il set principale allora la lista diventa ancora più vasta. Persino a teatro ci sono dei precedenti e vista la piega che prendono i dialoghi tra i personaggi del film della Hall, la mente non può non andare al Victoria Station, la breve pièce del 1982 firmata da Harold Pinter in cui un centralinista (impersonato nella prima produzione da Paul Rogers) e un tassista, esattamente il 274 (ruolo che fu di Martin Jarvis) dialogano attraverso la radio di servizio. Questo per ribadire che l’originalità non è di certo il pregio né tantomeno il punto di forza dell’operazione, così come non basta imbastire l’ennesimo road movie che ci porta in tempo reale in un tragitto in taxi con due soli personaggi che parlano del più e del meno, per farne un film.
Nonostante gli sforzi di dare una veste e una confezione cinematografica al tutto, l’impianto teatrale rimane impresso nel DNA di Una notte a New York
Nonostante gli sforzi del direttore della fotografia Phedon Papamichael e della regista di dare una veste e una confezione cinematografica al tutto, mettendolo in quadro invece che in scena tramite una dislocazione della cinepresa dentro e fuori dall’abitacolo, l’impianto teatrale rimane impresso nel DNA narrativo e tecnico della materia drammaturgica di partenza. Per quanto ci riguarda Una notte a New York avrebbe dovuto restare ed essere fruito in quello che era l’habitat per il quale il testo originale era stato pensato e concepito, ossia le tavole di un palcoscenico. Lì la dimensione intima e riservata del dialogo, così come l’intimo spazio scenico che lo accoglie, avrebbero trovato la migliore espressione e atmosfera. Nel film, invece, al netto delle performance di due grandi interpreti come la Johnson e Penn, alle emozioni che riescono a fare scaturire attraverso l’intensità variabile e cangiante delle battute e dei primi piani, ciò che resta è un giro di parole che, alla lunga, finisce per ripetersi, ricominciando da capo, aprendo e sospendendo i pensieri della ragazza, estrapolati dalle punzecchiature di quel tassista rivelatosi un inaspettato quanto efficace analista. Ma a conti fatti di tutto questo, al termine dei 100 minuti a disposizione, allo spettatore cosa resta? Noi un’idea ce la siamo fatta e voi?
Una notte a New York: valutazione e conclusione
Non bastano due grandi interpreti come Dakota Johnson e Sean Penn, una sceneggiatrice di talento al suo esordio da regista come Christy Hall e una confezione da road movie, per fare dello script di Una notte a New York un film. L’impianto teatrale che caratterizza l’operazione è una gabbia dalla quale il testo nativo non riesce a sfuggire e ci sarà un motivo. Questo perché le tavole del palcoscenico a nostro avvivo erano la cornice più adatta a un testo intimo e personale come questo, basato sulla complicità dei protagonisti e sui fitti e densi scambi dialettici tra di loro. Si è preferito al contrario il grande schermo e la realizzazione di un film del quale probabilmente resteranno solo le vibrazioni sprigionate dalle performance del duo chiamato in causa. Il resto è per citare i Jalisse solo un fiume di parole tra noi.