L’Abbaglio: recensione del film di Roberto Andò
Dopo La Stranezza, Roberto Andò fa di nuovo squadra con Toni Servillo, Ficarra e Picone. L'Abbaglio, sullo sfondo della Sicilia del XIX secolo e dei Mille di Garibaldi, arriva nelle sale italiane il 16 gennaio 2025.
Il 16 gennaio 2025, per 01 Distribution, arriva nelle sale italiane L’Abbaglio, il nuovo film di Roberto Andò. Per l’autore siciliano è l’atteso ritorno a tre anni da La Stranezza e da un successo provvidenziale, incontestabile, bello. Di quel film, ambientato tra Roma e la Sicilia negli anni ’20 del Novecento e costruito attorno a Luigi Pirandello e alla genesi di Sei personaggi in cerca d’autore, L’Abbaglio riprende il mix di cronaca e fiction oltre al fortunatissimo cast, miscela – e combinazione perfetta – di aristocrazia teatrale e comicità popolare: Toni Servillo, Salvo Ficarra e Valentino Picone. La Stranezza ha fatto bene al cinema italiano. Con il suo incasso, e la calorosa accoglienza critica, ha scosso un mercato stremato dalle chiusure e intimorito dalla disaffezione pandemica per la socialità. L’Abbaglio ricorda, prosegue e rilancia il discorso avviato dall’illustre predecessore. Siamo in Sicilia, nella seconda metà del XIX secolo. Primavera del 1860. C’è fermento sull’isola. La colpa è di un certo Giuseppe Garibaldi.
L’Abbaglio: un colonello realmente esistito e due volontari di pura finzione, la spedizione dei Mille come non l’abbiamo mai vista
Giuseppe Garibaldi (Tommaso Ragno, bravissimo a scuotere dalle fondamenta un monumento della Storia) sbarca a Marsala, Sicilia nord-occidentale, nel maggio del 1860. Era partito da Quarto in Liguria e per licenza storica – che Roberto Andò ci comunica tramite apposita didascalia – è lì che raduna i Mille, il corpo di volontari scagliati sull’isola per lanciare un guanto di sfida al potere borbonico e accelerare il processo di unificazione del paese. L’Abbaglio, come La Stranezza, si diverte a mescolare finzione e Storia per arrivare al punto. La Storia è il colonnello Orsini (Toni Servillo), pezzo grosso delle milizie garibaldine e prototipo del grande ufficiale. Pacato, lucido, idealista ma pragmatico, un passato controverso – aristocratico in conflitto con il suo mondo, accuse di tradimento – e un futuro potenzialmente glorioso: entrare a Palermo, la sua città, da rivoluzionario e liberatore, a coronamento di una vita di vagabondaggi e di rimpianti. Roberto Andò fa di Orsini l’incarnazione di un eroismo maturo e di una nobiltà dell’anima; è l’italiano da copertina.
Accanto, gli sistema l’italiano com’è davvero. Meglio, gli italiani, perché sono in due. Personaggi immaginari, si chiamano Domenico (Salvo Ficarra) e Rosario (Valentino Picone), siciliani lontani da casa che si arruolano tra i Mille vantando fasulle pretese patriottiche, perché quello che gli interessa è solo un passaggio per tornare a casa. Disertano a Marsala, il giorno dello sbarco, puntano dritti verso casa ma a casa non arrivano, perché la mano del destino li rimette in carreggiata. La mano del destino, e la volontà di Orsini. L’Abbaglio è costruito su un disperato – e storicamente verificato – stratagemma di Garibaldi per disorientare il nemico borbonico. Una colonna di “volontari”, con in testa Orsini, deve far credere al comandante Von Nechel (Pascal Greggory) che tra loro c’è Garibaldi in ritirata e convincerlo a inseguirli. Il vero Garibaldi, nel frattempo, senza il fiato dei nemici sul collo, progetta di entrare a Palermo da trionfatore. Una missione quasi suicida, con poche possibilità di riuscita.
La situazione precipita a Sambuca, dove Orsini e i suoi si nascondono tra la povera gente – i poveri aiutano i Mille, i preti e ricchi, aiutati dai mafiosi, no – per scampare alla vendetta borbonica. Uscirne si può, ma serve un miracolo. Il miracolo arriva; è la chiave di volta della storia, il momento in cui L’Abbaglio – titolo che porta fuori strada, col suo tutto sommato rassicurante ma inesatto singolare – svela la sua natura di indagine sull’ambiguità della vita e l’approccio iconoclasta verso i grandi discorsi e i grandi, retorici ideali. Il confine tra eroismo e cialtroneria, tra dedizione e codardia, è sottile e spesso frainteso; una complessità inquietante ma ineludibile, il dna del carattere italiano. Domenico e Rosario, eroi-truffatori, nella caratterizzazione sopra le righe ma sincera dei bravissimi Ficarra e Picone, incarnano i tanti abbagli – umani, storici – di cui si compone il tessuto di un film interessante ma nel complesso meno efficace del predecessore, bravo a prendere in prestito ma non altrettanto a aggiungere. Qualcuno ha detto La grande guerra?
Un curioso paradosso nascosto tra i tanti abbagli raccontati dal film
Il riferimento, nei vagabondaggi di storia e personaggi, nell’attitudine involontariamente eroica dei protagonisti, nella commistione di cronaca e fantasia, è quello. L’Abbaglio, con i suoi emarginati travolti dell’impeto della Storia, immagina Ficarra e Picone come una versione riveduta e corretta di Sordi-Gassman eroi loro magrado nel capolavoro del 1959 di Mario Monicelli? Anche lì c’erano approccio iconoclasta, una potente rivisitazione del concetto di eroismo, verità storica e (utile, giusta) menzogna cinematografica. Non bisogna però scordare le differenze. Il limite più evidente di un buon, rigoroso, film in costume come L’Abbaglio è un curioso paradosso. La materia risorgimentale, al cinema, almeno da un punto di vista quantitativo non è mai stata così scavata, anche per ragioni di budget, va detto; di film sull’argomento, a conti fatti, se ne ricordano pochi. Il problema è che quei pochi hanno detto gran parte delle cose che c’erano da dire.
Si tratti della commistione tra politico e privato, anche sentimentale (Senso, 1954, Luchino Visconti), dell’immutabilità della Storia all’alba di una grande rivoluzione (Il gattopardo, sempre Visconti, 1963), del cinismo dei potenti e dell’eterna ingiustizia (I Viceré, Roberto Faenza, 2007); molto è stato detto e in precedenza. Nel mezzo c’è la tragicomica verità umana e storica di La grande guerra, che guardava altrove, certo, alla Prima guerra mondiale, ma è evidente come e quanto influenzi, nei toni e nell’ideologia, il film di Roberto Andò. Titolo fuorviante, L’Abbaglio, perché parla al singolare quando di illusioni da svelare ne ha fin troppe. Abbaglio è la natura tradita di una rivoluzione, il Risorgimento, che nell’unità del paese doveva trovare la linfa per abbattere ingiustizie e disuguaglianze e invece si adagia sul “tutto cambi perché nulla cambi”; il senso dell’illusione sbriciolata dalla vita è tutto nella lucida malinconia di un intenso e dolente Toni Servillo.
Abbaglio è l’eroismo e abbaglio la cialtroneria, intrecciati che non è facile capire dove cominci l’uno e finisca l’altra. Gli eroi spariscono, al momeno decisivo, e i vigliacchi diventano eroi. Ma è proprio così che vanno le cose o è un abbaglio anche questo, il più grande di tutti? Robertò Andò gira un film stratificato, che tanto contiene – svelamento delle illusioni, approccio antiretorico, eroismo e disonestà, la Storia d’Italia usata per rileggere il carattere degli italiani – e insieme non abbastanza. L’idea di rinnovare l’alchimia del trio Servillo-Ficarra-Picone presentandoli in scena, il primo e i secondi, spesso insieme e altrettanto spesso separati – giocando sottilmente con le aspettative del pubblico – è una premessa forte, non valorizzata da una sceneggiatura in leggero difetto di ispirazione. Ambizioso nella messa in scena, giustamente provocatorio nelle argomentazioni, L’Abbaglio raccoglie meno di quello che semina e non regge del tutto il confronto con il fortunato predecessore.
L’Abbaglio: conclusione e valutazione
Leonardo Maltese, nella parte dell’idealista Ragusìn, braccio destro di Orsini, e Giulia Andò nei panni di Assuntina – un viaggio interessante, il suo personaggio – riflettono i limiti di un film che combatte con le sue ambiziose premesse per darsi una forma e una profondità soddisfacenti, riuscendoci solo in parte. Dal soldato idealista che sbatte il muso contro la vita e dalla donna che cambia pelle cercando un controllo che forse non otterrà mai, il film non sa tirare fuori il massimo e li lascia in un cantuccio, vagamente inespressi. L’Abbaglio funziona per il prestigio della messa in scena, nelle battaglie e nella ricostruzione del profumo di un’epoca. Le idee sono potenti; manca, a differenza di quanto accaduto con La Stranezza, una forma narrativa e un contesto che sappia giocarci e portarle all’estremo.