American Primeval: recensione della miniserie Netflix
La recensione della cruda e coinvolgente miniserie western scritta da Mark L. Smith e diretta da Peter Berg. Dal 9 gennaio 2025 su Netflix.
Nel binge-watching, pratica assai diffusa sulle piattaforme, si sperimenta un forte desiderio di abbuffarsi di serie e volutamente si appaga tale desiderio consumandole tutte d’un fiato. Vi sono show che si prestano, anzi necessitano, di questa modalità per non spezzare il flusso narrativo ed emotivo della linea orizzontale, altri invece hanno bisogno di interromperlo per consentire allo spettatore di turno di incanalare, sedimentare e metabolizzare quanto visto e provato nel singolo capitolo, ma più in generale di rifiatare dopo essere stato sottoposto a un fuoco continuo e incroiato di sollecitazioni di varia natura e livello di intensità. American Primeval, la miniserie western scritta da Mark L. Smith e diretta da Peter Berg, i cui sei episodi (con durata che vanno dai 52 ai 36 minuti) sono stati interamente rilasciati da Netflix il 9 gennaio 2025, è uno di questi.
American Primeval non fa sconti a nessuno, portando sullo schermo un racconto del selvaggio West ancora più oscuro e brutale
Il binge-watching poco si addice, nonostante l’elevato coefficiente di coinvolgimento e il ritmo serrato raggiunti, a un prodotto audiovisivo come quello firmato dall’autore di The Revenants e confezionato dal regista newyorchese. Entrambi si sa, e lo dimostrano i rispettivi precedenti, non ci sono mai andati leggeri quando si è trattato di dare vita, forma e sostanza a storie di grande impatto e dalla messa in scena sporca, crudele e inquietante. American Primeval in tal senso non fa sconti a nessuno, portando sullo schermo un racconto del selvaggio West ancora più oscuro e brutale di quello proposto in Yellowstone o in Horizon: An American Saga. L’alto tasso di violenza che caratterizza l’intera visione, tanto da renderla in più di un’occasione insopportabile per la crudezza, l’efferatezza e il realismo offerti, consegna a chi la guarda una visione estenuante, dalla quale si riemerge e si torna a respirare dopo una lunghissima apnea solo nei minuti finali dell’atto conclusivo. Fino all’epilogo gli autori non danno tregua allo spettatore salvo rari e brevissimi pit-stop, utili più che altro a riprendersi dopo l’ennesima folata di violenza alla quale si è assistiti inermi. Bisogna dunque arrivare preparati e coscienti che quello che scorrerà davanti ai propri occhi non sarà per nulla semplice da digerire. Questo perché alla base del progetto c’era la volontà di colui che la miniserie l’ha concepita di restituire tutta la spietatezza e la brutalità di un’epoca e di una terra che era di tutti e di nessuno, in cui la fiducia nell’altro era merce rara e si uccideva per niente e per niente si veniva uccisi, dove l’unica cosa che contava era sopravvivere e sopraffare. E se la mission degli autori era in primis restituire tutto questo, allora ci sono riusciti pienamente e gli va riconosciuto, indipendentemente dall’esito dello show e se piaccia oppure no.
Il racconto di finzione si intreccia in maniera efficace e coerente con la ricostruzione di episodi realmente accaduti
In American Primeval la galleria di personaggi che la animano cercano di sopravvivere a sparatorie, sgozzamenti, conflitti di ogni tipo, meteo avverso e lotta per ottenere il controllo delle terre della frontiera. Nell’arco narrativo si assiste a un sanguinario scontro di culture e religioni che coinvolge le diverse comunità locali d’oltreoceano, mentre uomini e donne combattono e muoiono per mantenerne il controllo. Il “teatro” delle vicende é il territorio più pericoloso dell’epoca, quello dello Utah. Per la precisione la macchina del tempo ha riavvolto le lancette sino al 1857. Siamo a ridosso di montagne aride e inospitali, vivono comunità diverse di individui. Gli unici solitari sono i protagonisti: un uomo bianco che ha vissuto con i pellerossa, una donna in fuga col figlio, una donna nativa muta. Taylor Kitsch interpreta Isaac Reed, uomo rude e di poche parole che accetta controvoglia di aiutare Sarah Rowell (Betty Gilpin) e suo figlio Devin a sopravvivere alla traversata dei monti innevati. Una brutale imboscata inflitta ad alcuni viaggiatori, nel frattempo, aumenta le ostilità tra varie le varie fazioni in campo, destinate a sfociare in scontri barbari e stragi senza senso come quella di Mountain Meadows che Berg ha messo in quadro con uno spettacolare quanto violentissimo piano sequenza a metà del capitolo iniziale. Con la rievocazione del suddetto episodio si materializza un’altra caratteristica della miniserie, nonché punto di forza della scrittura, ossia quella che vuole il racconto western di finzione intrecciarsi in maniera efficace e coerente con la storia reale. Il ché impreziosisce e aumenta il peso specifico della componente narrativa e drammaturgica, consentendo a questa di presentarsi al fruitore come un’analisi di quel periodo storico, dove l’alto è il basso, il dolore è ovunque, l’innocenza e la tranquillità stanno perdendo la battaglia contro l’odio e la paura. In tale contesto la pace è solo un miraggio e i pochi barlumi di speranza, altruismo, delicatezza, amore e compassione vanno difesi anch’essi e a costo della vita.
Una serie che conquista per la tensione febbrile, la potenza impattante delle immagini e il ventaglio di emozioni cangianti che è in grado di sprigionare
Il prisma di ideologie opposte e in conflitto dei personaggi è di fatto il vero motore narrativo di una miniserie che riesce a palleggiare efficacemente tra la rievocazione storica, l’epopea western e il suo illustre immaginario. La penna di Smith e la regia di Berg lavorano in perfetta simbiosi per concentrare il tutto in uno show dalla messa in quadro impattante, maestosa ed estremamente curata sul piano contenutistico e formale, che conquista per la tensione costantemente febbrile e il ventaglio di emozioni cangianti che è in grado di sprigionare. Lo spettatore, anche grazie alle potentissime interpretazioni di Taylor Kitsch e Betty Gilpin, non può non venirne travolto con American Primeval che per quanto ci riguarda è uno degli acuti più forti uditi negli ultimi anni nel genere di riferimento.
American Primeval: valutazione e conclusione
Il selvaggio West raccontato dalla penna di Mark L. Smith e dalla macchina da presa di Peter Berg in una miniserie cruda e feroce che lascia il segno nella retina e nella mente dello spettatore per la tensione costante, il ritmo serrato, l’elevato tasso di violenza e per la potenza delle immagini. Il prisma di ideologie opposte e il conflitto di personaggi che cercano di sopravvivere in tutti i modi a sparatorie, sgozzamenti, massacri, meteo avverso e lotta per ottenere il controllo delle terre della frontiera, sono il carburante del motore narrativo e drammaturgico di American Primeval. Ai deboli di cuore e a coloro che mal digeriscono la violenza esplicita e il sangue si sconsiglia la visione in binge-watching. Il rifiatare tra un episodio e l’altro per riprendersi dalle continue sollecitazioni emotive e visive che si abbattono sul fruitore come uno tsunami sono misure da adottare per non venirne travolti. Emozioni cangianti che vengono anche dalle performance attoriali, su tutte quelle intense e fisiche di Taylor Kitsch e Betty Gilpin.