Io sono ancora qui (I’m still here): la storia vera dietro al film sui Desaparecidos
Quale verità narra Io sono ancora qui, il film al cinema dal 30 gennaio 2025?
Io sono ancora qui (I’m still here), film brasiliano diretto da Walter Salles, con protagonista Fernanda Torres, è in corsa per gli Oscar 2025 e, considerando il successo riscosso, potrebbe aggiudicarsi un posto nella cinquina finale, e i presupposti sembrano buoni anche per ottenere il prestigioso Academy Award come Miglior film straniero. L’attrice protagonista Fernanda Torres ha inoltre ottenuto il Golden Globe come Miglior attrice protagonista in un film drammatico. I’m still here, diretto dallo stesso regista di film come I diari della motocicletta e Cattive acque, uscirà nei cinema italiani il 30 gennaio 2025, dopo esser stato presentato in anteprima all’81ª Mostra del Cinema di Venezia. I’m still here racconta la storia di Rubens Paiva, ingegnere, attivista e politico brasiliano scomparso durante gli anni della dittatura militare in Brasile. Si tratta di uno degli innumerevoli Desaparecidos dell’America Latina che durante le dittature instauratasi in Argentina, Cile, Uruguay, Paraguay e Brasile vennero arrestati, torturati e uccisi, e i loro corpi fatti sparire. Esistono molteplici film che trattato il tema o che lo toccano marginalmente, tra cui si ricordano La casa degli spiriti, D’amore e ombra, Garage Olimpo, Figli/Hijos, Post mortem, Santiago, Italia e Argentina, 1985.
Basato quindi su fatti realmente accaduti, I’m still here è interamente tratto da una storia vera. Come si vede nel film, Rubens Paiva, al momento dell’arresto non era più un membro del Congresso per lo Stato di San Paolo del Partito laburista brasiliano. Quando ricopriva ancora la carica, che ottenne successivamente, nel 1962, di membro del Comitato congressuale, aveva anche il compito, tra gli altri, di esaminare le attività che miravano a un’azione democratica. Il colpo di stato del 1964 portò Paiva a rifugiarsi prima in Jugoslavia e poi a Parigi. Diretto dopo a Buenos Aires per incontrare i leader di sinistra che erano stati deposti, prese un altro volo, per San Paolo, dove vivevano la moglie e i figli, che si trasferirono poi tutti insieme a Rio de Janeiro. Essendo instauratasi ormai la dittatura, Paiva tornò ad essere un ingegnere civile. In I’m still here si intuisce che ci siano situazioni che esulano dal proprio lavoro, nel quale Paiva sia coinvolto. Paiva si occupava infatti di aiutare militanti di sinistra o guerriglieri in esilio, a livello non solo nazionale, ma anche fuori dal Brasile.
La storia vera dietro il film brasiliano Io sono ancora qui (I’m still here)
Non si trattava di attività anti governative o per rovesciare il regime, ma di mantenere contatti e cercare di non lasciare soli tutti coloro che, a causa della dittatura, erano dovuti fuggire, avevano abbandonato le proprie case e città, e a volte, le proprie famiglie. Per quanto la moglie di Paiva, Eunice, fosse all’oscuro di ciò che faceva il marito fuori dal lavoro, insieme ad altri colleghi, si trattava semplicemente di rapporti, spesso non politici, intrattenuti con presunti e lontani oppositori al regime, identificati come comunisti o sostenitori della democrazia, e quindi in ogni caso, visti come una minaccia. La frase “non si può non fare nulla” è emblematica nel film, ed è quella che viene rivolta ad Eunice quando, a seguito della scomparsa del marito, scopre e si rende conto che c’era qualcosa che Rubens faceva che lei ignorava, qualcosa che avrebbe potuto metterlo in pericolo. Certo nessuno immaginava quello che poi si scoprì anni dopo sulle sorti di chi, spesso senza prove, veniva marchiato come implicato in attività anti governative.
Quello che Rubens e i suoi colleghi facevano viene rappresentato come il minimo indispensabile per non non fare nulla, per non rimanere fermi, per non accettare una dittatura militare e per non abbandonare chi, come loro, sperava che il Brasile diventasse un Paese realmente democratico. Come racconta Io sono ancora qui, Rubens Paiva venne arrestato il 20 gennaio del 1971 da uomini armati che lo portarono via senza particolari spiegazioni, chiamandolo ancora “deputato Paiva“. Nella realtà i militari che arrestarono Paiva dissero di essere membri dell’aeronautica militare e secondo documenti e testimonianze, l’auto sulla quale viaggiava Paiva e che era diretta alla prigione del Centro per le operazioni di difesa interna, fu bloccata, e Paiva venne preso da individui mai identificati. Situazione non menzionata dal film. Da quel momento, cioè da quando Paiva venne portato via da casa, di lui non si seppe più nulla. Eunice e la figlia Eliana, di quindici anni, furono realmente arrestate in quell’occasione, poche ore dopo, interrogate e messe in isolamento: Eliana per ventiquattr’ore e la madre per dodici giorni.
Durante gli interrogatori Eunice ed Eliana videro il ritratto di Paiva tra le numerose foto segnaletiche. Come viene rappresentato nel film, entrambe videro anche tracce di sangue e sentirono le urla dei prigionieri. Lo stesso luogo dove infatti Eunice venne sottoposta a interrogatorio e isolamento erano le stesse identiche stanze dove venivano torturati coloro che erano presunti agenti comunisti o oppositori al regime. Secondo alcune fonti, Paiva morì il giorno successivo al suo arresto, a causa delle lesioni a seguito delle torture subite nella caserma dove era detenuto. Il corpo non fu mai trovato, come viene ricordato alla fine del film, e si aspettarono anni prima che si potesse ottenere un certificato di morte. In Io sono ancora qui si vede come Eunice scopre della sua morte molto tempo dopo, ma quando i suoi figli sono ancora piccoli e quindi anni prima che ex ufficiali militari e in particolare un medico dell’esercito, come è accaduto realmente, rivelarono la sorte e la morte di Paiva, alla Commissione nazionale per la verità.
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