Il seme del fico sacro: recensione del film di Mohammad Rasoulof

Cinema d’impegno sociale e thriller d’autore si fondono e confondono, in un esempio perfetto di cinematografia necessaria, brutale e di ampio respiro e richiamo. Rasoulof ha firmato il suo film più disperato, nero, impavido e definitivo. In sala dal 20 febbraio

Com’è possibile che il film più Hitchcockiano dell’anno, sia anche il titolo più politicamente e socialmente impegnato dell’ultima decade – e oltre – di cinema globale? È possibile. Lo dimostra il suo autore Mohammad Rasoulof, già firma di importanti e celebrati lungometraggi, tra i quali L’isola di ferro, Lerd e Il male non esiste, che è valso a Rasoulof l’Orso d’oro al 70° Festival di Berlino. Girato e montato in parziale, se non addirittura completa clandestinità – Rasoulof in passato aveva già subito condanne e ripercussioni da parte del governo iraniano per i suoi film e documentari – Il seme del fico sacro, presentato in anteprima mondiale al 77° Festival di Cannes, è in uscita nelle sale cinematografiche italiane a partire da giovedì 20 febbraio. Co-distribuzione a cura di Lucky Red e BiM Distribuzione.

Il male è nella famiglia. L’arma come pretesto, la violenza come germe atavico della violenza, dell’intolleranza e della follia generata dalla fede

il seme del fico sacro cinematographe.it

Il seme del fico sacro ha inizio nel buio. C’è un uomo, Iman (splendida e brutale prova d’attore quella di Misagh Zare) che rifugiatosi in un santuario nel deserto, prega nella notte silenziosa e solitaria. Ad attenderlo però non vi è soltanto il momento della preghiera, bensì l’accettazione di un prossimo e cupo indirizzo di vita – di lì a poco, diverrà giudice istruttore – e così un cambiamento radicale della propria moralità e anima. Scatenata dapprima, dall’inattesa svolta professionale e secondariamente dalla misteriosa sparizione dell’arma di servizio, riposta come sempre nel comodino della camera da letto, della casa che Iman ha da sempre considerato un vero e proprio regno, dominando passivamente, senza mai incontrare rifiuto e contraddizione.

Nel regno di Iman però, qualcosa muta improvvisamente. Quell’arma che svanisce e a Rasoulof preme sottolineare fin dalle primissime sequenze, quanto il caos – e così il caso – non abbiano niente a che fare con le vicende del suo film, a metà strada tra cinema documentaristico e thriller gloriosamente d’autore. Non soltanto poiché impegnato in termini socio-politici, ma anche perché figlio di uno sguardo ed un afflato estremamente personali, mai piegati ad una narrazione o messa in scena canonica del genere di riferimento. Piuttosto debitori di uno sguardo che molto deve, a veri e propri maestri di cinema quali Asghar Farhadi (Il cliente) e Nuri Bilge Ceylan (C’era una volta in Anatolia).

Chi ha rubato la pistola di Iman? Sono state le figlie adolescenti Rezvan e Sana (che grandi interpreti Mahsa Rostami e Setareh Maleki, entrambe fuggite dall’Iran, per non subire le ripercussioni generate dalla resa pubblica del film), forse perché improvvisamente risvegliate dalle necessarie proteste popolari, a favore della femminilità e della giustizia, sempre o quasi annullate dalla violenza e dalla brutalità cieca e silenziosa del Tribunale di Teheran? Oppure è stata la moglie devota e da sempre rassegnata Najmeh (Soheila Golestani, cui appartiene forse il più grande e memorabile momento di cinema di questo film così necessario e insopportabilmente reale e crudo)? Le risposte tardano eccome ad arrivare, nel frattempo Rasoulof, da celebrato autore e maestro di cinema quale è, dissemina e costruisce tutt’attorno all’elemento mistery e tipicamente thriller del film, un’anima cruda e feroce di cinema del reale, che spesso e volentieri, spinge lo spettatore a porsi la domanda: Ciò che guardo è vero, o è filtrato dallo strumento cinema?

Il seme del fico sacro: valutazione e conclusione

Rasoulof colloca il suo ultimo e decisivo lungometraggio da regista, esattamente nel mezzo. Ecco perché il film è così spaventoso, ecco perché Iman è il protagonista per eccellenza, rispetto allo svelamento brutale del male insito nella famiglia, così come negli estremismi mitomani, violenti e intolleranti della fede islamica. Non c’è niente di più spaventoso, non c’è niente di più reale. L’arma è soltanto un pretesto e Rasoulof sagacemente, lavorando in sottrazione, riflette sul peso simbolico e via via dichiarato della metafora, che si fa spazio sempre più nel tensivo e dilatatissimo finale.

In quella corsa disperata e mortifera tra i resti di un paese ormai distrutto – pensiamo immediatamente al destino del popolo Iraniano per come lo conosciamo oggi e al labirinto che non prevede una fine, al massimo un nuovo inizio, che non per forza coincide con il bene, ma che forse guarda al male, differente, eppure tale – e di una famiglia che è sempre stata fittizia, costruita ad hoc e specchietto di un desiderio egoistico e violento. Quello dell’uomo che vuol sentirsi re, se non addirittura Dio, sottoponendo a sé vere e proprie schiave, fedeli ad un tacito accordo sancito dal legame di sangue. Lo stesso che la sparizione dell’arma spezza ferocemente. Così come quel sangue, che Najmeh in segreto lava via, dal viso orrendamente martoriato della studentessa Sadaf (Niusha Akhshi), la cui unica colpa è quella d’aver manifestato per la propria libertà e per quella di tutte le altre donne del suo popolo.

Tre ore o quasi di grande, grandissimo cinema, che un po’ per intensità di racconto e un po’ per realismo crudo, spietato e documentaristico, volano via come un soffio, tenendo lo spettatore incollato alla poltrona. Costringendolo in più di un momento a guardare altrove, pur suggerendogli di non farlo, così da renderlo partecipe di uno spaccato storico/sociale e politico, che non guarda ad un tempo che è stato, piuttosto ad un tempo che è. Se estraneo, nella fortuna, se vicino nell’allerta di un pericolo e di una violenza sempre più feroci, orrorifiche e imminenti. Un impavido, glorioso e brutale inno alla femminilità, alla forza del popolo, cui non resta altro se non continuare a combattere in nome della libertà, della vita e di un’osservazione di fede adeguata e non estremista e al tempo stesso un inno al cinema. Rasoulof ha firmato un capolavoro e clandestinamente lo ha condotto fino a qui e a noi. Celebriamolo e non abbassiamo lo sguardo. Mai.

Regia - 4.5
Sceneggiatura - 4.5
Fotografia - 4.5
Recitazione - 4.5
Sonoro - 4.5
Emozione - 4.5

4.5