L’uomo di argilla: recensione del film di Anaïs Tellenne
L’esordio al lungometraggio di Tellenne, è una favola cupa, malinconica e gentile sulla magia dell’incontro tra due forme opposte e distanti di solitudine, che si ritrovano però nella poesia dell’arte e dello sguardo. Oltre il mostruoso e l’abbandono. In sala dal 13 febbraio
Le canzoni più belle, sono le canzoni tristi, rivela Galance (Emmanuelle Devos), artista dolente d’arte moderna, al malinconico e “bestiale” Raphaël (Raphaël Thierry), musicista e custode dell’antico castello di famiglia, immerso nei boschi di una Francia rurale senza nome. Dunque un vero e proprio non luogo, che definisce fin dal primissimo istante la dimensione atipica, favolistica e disperata – seppur magica -, de L’uomo d’argilla di Anaïs Tellenne e così dei suoi protagonisti.
È proprio vero, le canzoni più belle, sono le canzoni tristi. Galance lo sa bene, Raphaël ancor meglio. Costretto ad una vita di solitudine e dolore – la sua musica ne è espressione diretta ed efficace, ancor più della parola -, Raphaël vive sospeso tra farsa e tragedia. La prima coinvolge Samia, ninfomane con il fetish del sesso violento, mentre la seconda il dolore dello stesso Raphaël. Dalla menomazione dell’occhio perduto, che vorrebbe a tutti i costi riavere, alla difficoltà di amare, o forse addirittura all’impossibilità.
L’uomo, la bestia e la fuga dal dolore

Raphaël infatti, ancor prima dell’arrivo al castello della dolente e misteriosa Galance, in equilibrio tra insoddisfazione emotiva – Aleggiano le ombre del suicidio, o del gesto estremo, capace di comunicarle quantomeno il dolore – e mancanza di ispirazione, è già l’uomo d’argilla, ancor prima di divenire tale su richiesta di Galance. La sua come detto, è una vita remissiva, estremamente rigida e in qualche modo, estranea a sé stessa. C’è un uomo sepolto nel corpo della bestia, è lì, nello sguardo. Proprio quello che Raphaël vorrebbe recuperare, eppure sembra che tutti remino contro. Com’è possibile salvarsi? Com’è possibile continuare ad amarsi, senza più rifugiarsi nel dolore e nell’abbandono?
Sono solo alcune delle domande e riflessioni che L’uomo di argilla, esordio alla regia della nota interprete Anaïs Tellenne (vista recentemente nel celebrato Leurs enfants après eux di Ludovic e Zoran Boukherma) si pone e suscita, interrogando i suoi protagonisti e così gli spettatori, sul male che quotidianamente gli uomini (si) fanno, rifiutando la loro stessa natura. Dunque non l’apparenza, ma ciò che l’emotività e la sensibilità celano, ciò che di fatto si è, pur negandosi, indossano maschere, talvolta spaventose, altrimenti pericolosamente sfuggenti o addirittura detestabili.
Quella di Raphaël però non è una maschera. Suo malgrado, corpo e volto parlano alla gente, generando timore, o in qualche caso divertimento – Samia lo sfrutta per il soddisfacimento delle sue fantasie sessuali più perverse e brutali, osservandone l’aspetto mostruoso come impeccabile strumento e nulla più -, costringendolo inevitabilmente al rifugio e all’abbandono. Tutto ciò che invece non vive e non ha mai vissuto Garance, che legge la sofferenza – Perfino autoindotta – come chiave d’elaborazione artistica e non rito di passaggio emotivo, causato da potenziali traumi o reali insoddisfazioni di vita e d’amore. Eppure i due si incontrano e scontrano, dentro e oltre l’arte, la musica e la possibilità di specchiarsi nella reciproca ricerca d’attenzione e cura. Per il primo forzatamente sentimentale, mentre per la seconda opportunamente artistica e di celebrità.
L’uomo di argilla: valutazione e conclusione

Quello di Anaïs Tellenne è un debutto atipico e magico, che passa per più linguaggi e soluzioni stilistiche – Curiosamente, è già il secondo caso di cinema recente, dopo La zona di interesse di Jonathan Glazer, che si sofferma sul museale e il significato profondo di opera d’arte, frutto non solo di creatività, ma anche e soprattutto di dolore e solitudine -, ritrovando il dramma, il fantasy, il cinema sentimentale e così il grottesco.
Non sono molti i film come L’uomo di argilla, questo è certo. Capaci di riflettere, senza alcuna banalità o limiti di sorta, sul peso effettivo di un corpo deforme e spaventoso, che in dialogo con la società odierna, pur d’essere accettato, abbraccia la solitudine. Vivendo così un enorme dolore, che limita nonostante tutto, moltissimi altri drammi, potenzialmente generati dal sociale, dall’altro – Che non è il mostruoso, bensì noi, uomini e donne qualsiasi rifugiati a nostra volta nella spietatezza della società, sempre più conflittuale, sempre più violenta e intollerante -, dallo sguardo e dalla derisione.
È una favola L’uomo di argilla, ma pur essendo tale non fa sconti a niente e nessuno. Sull’incontro tra due forme di solitudine e sull’arte, quella più triste, quella più bella.
Presentato in anteprima mondiale a Venezia 80, nella sezione Orizzonti Extra, L’uomo di argilla è al cinema a partire da giovedì 13 febbraio 2024, distribuzione a cura di Satine Film.