Leibniz – Chronicle of a lost painting: recensione del film di Edgar Reitz, dalla Berlinale 2025

Edgar Reitz ci porta nella Prussia del Settecento del filosofo Leibniz, per parlare ancora una volta dell'importanza del cinema.

Presentato alla Berlinale 2025, Leibniz – Chronicle of a lost painting, diretto da Edgar Reitz, coadiuvato da Anatol Schuster, è un film complesso, dal respiro filosofico, che chiama in causa l’ontologia del cinema stesso.
Nel 1704 la prima regina di Prussia, Sofia Carlotta di Brunswick-Lüneburg, ex studentessa del filosofo Leibniz, commissiona un quadro del suo maestro. Attraverso il dipinto, da esporre in una sorta di wunderkammer, vorrebbe poter sentire costantemente la presenza dell’antico maestro. Il primo pittore che si accinge al compito fallisce miseramente, non riuscendo a stabilire nessun contatto umano con Leibniz. Mentre la pittrice fiamminga Aaltje van de Meer lentamente si guadagna la fiducia del filosofo, esponendogli le sue teorie sulla pittura e sulla riproduzione delle immagini.

Leibniz – Chronicle of a lost painting. Fra pensiero illuminista e cinema

Leibniz – Chronicle of a lost painting  Cinematographe

La figura di Leibniz è una figura emblematica del pensiero occidentale. Intellettuale illuminista, noto principalmente per il concetto di monade e per la teoria secondo la quale viviamo nel miglior mondo possibile, fu anche un genio matematico, inventore di una delle prime calcolatrici informatiche, precursore del calcolo automatico e quindi dell’informatica e della neuroinformatica. Reitz, che ha dichiarato di essere stato influenzato dal pensiero del filosofo durante la sua formazione, decide allora di allestire una serie di tableaux vivants, in cui i movimenti di macchina sono davvero minimi, al fine di costruire un kammerspiel in cui la figura del filosofo assuma i tratti di padre della modernità. Ciò porta l’intero film a configurarsi come una sorta di dialogo fra pensiero filosofico-scientifico e quello artistico, inerente alla capacità dell’umano di riprodurre l’essenza più profonda della vita. Il nucleo della modernità, scaturito dal pensiero illuminista, sembra risiedere secondo Reitz nella capacità dell’uomo di reinterpretare e riprodurre il reale. L’uomo esce dalla gerarchia trascendentale che lo vede come emanazione di un divino inconoscibile – senza però negarne l’esistenza – per inserirsi in un universo materiale che, tramite le proprie facoltà intellettuali e le capacità artistiche, può essere conosciuto nella sua natura profonda fino a essere riprodotto.

Leibniz – Chronicle of a lost painting  Cinematographe

Risulta palese la metafora metacinematografica sottostante l’opera. Il primo pittore, Delalandre, potrebbe essere visto come un esponente del cinema inteso come mero strumento di riproduzione del reale, cui applicare tutti gli orpelli estetizzanti possibili. Si tratta di una sorta di cinema-spettacolo che rimane sulla forma delle cose e non riesce a penetrarne la sostanza. L’arte come mera riproduzione fine a sé stessa. Mentre le concezioni portate avanti da Aaltje van de Meer, incontrano la necessità espressa dal filosofo di andare al cuore del reale, di trovare la verità dietro la forma. Creare immagini significa, per la donna, principalmente scrivere con la luce (letteralmente cinematografia), al fine di poter condensare in un oggetto, che durerà per sempre, tutto il lavorio della vita, il brulicare di emozioni e pensieri, le azioni anche, che hanno portato l’uomo rappresentato a essere presente nel momento del ritratto. Insomma l’immagine pittorica, ma stiamo parlando di quella filmica, è una funzione di un movimento nello spazio-tempo e non di un congelamento di un istante nel tempo dell’esistente. Reitz sembra voler dire che il cinema, grazie alla sua capacità di restituire il movimento, a differenza della fotografia che – secondo la teoria barthesiana – rappresenta l’immobilizzazione del fluire della vita, è lo strumento più adatto per dare a quel fluire una nuova vita, cioè per darne memoria.

Leibniz – Chronicle of a lost painting: valutazione e conclusione

Leibniz – Chronicle of a lost painting  Cinematographe

Come nel precedente Subject: Filmmaking (2024), il regista tedesco ribadisce l’importanza del cinema, inteso come dispositivo in grado di preservare la memoria collettiva dell’umano. Dispositivo, che attraverso questo processo è addirittura in grado di cambiarne le sorti e garantire il progresso verso un mondo più giusto – in questo caso, per esempio, verso la parità di genere, rappresentata da Aaltje van de Meer e dalla scelta di mettere in scena la regina Carlotta, la regina filosofa.
Certo l’espediente di trattare questi argomenti in un kammerspiel ambientato nella corte di Prussia, attraverso un linguaggio classicamente rigoroso, può non essere adatto a tutti. Il rischio insomma di apparire una sorta di erudita dissertazione autoreferenziale è presente, d’altronde la maestria di Reitz riesce a evitare il didascalismo e a rendere il tutto abbastanza scorrevole e accattivante, facendo di Leibniz – Chronicle of a lost painting un film da vedere.

Regia - 4
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 4
Sonoro - 3.5
Emozione - 3

3.6

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