Berlino, estate ’42: recensione del film sulla storia vera di Hilde Coppi
Diretto da Andreas Dresen, con un’ottima Liv Lisa Fries, affiancata da Johannes Hegemann, Lisa Wagner, Alexander Scheer, Lisa Hrdina e molti altri, Berlino, estate ’42 racconta una storia vera di resistenza al nazismo, quella di Hans e Hilde Coppi, membri di un gruppo di oppositori al regime e che vennero arrestati per attività considerate illecite e clandestine. Il gruppo, noto come l’Orchestra rossa, si occupava principalmente di lasciare volantini in giro per la città e di inviare messaggi alle forze alleate. Hilde è all’ottavo mese di gravidanza quando viene arrestata e interrogata, in attesa del processo, consapevole che in quelle celle ci sono amiche e colleghe, e da qualche parte, anche Hans. Nei giorni che scorrono verso una sentenza già annunciata, Hilde trascorre l’ultima parte della sua esistenza nel centro di detenzione della Gestapo, dove l’umanità sembra esser stata dimenticata e dove non c’è spazio per lo sconforto o la speranza, ma solo per la certezza di aver tentato di fare la cosa giusta.
Berlino, estate ’42: toni e linguaggi necessari

Berlino, estate ’42 adotta uno stile quasi documentaristico, estremamente realistico, sia nei momenti più spensierati e d’amore tra i due protagonisti, sempre permeati da una vivida tragedia che si consuma nel mondo circostante, che in quelli di puro dramma. Una storia vera che del più crudo e brutale realismo fa la sua cifra stilistica. Se c’è una fredda semplicità in alcune scene di Berlino, estate ’42, quella è la stessa semplicità con cui i due protagonisti affrontano il legame che si instaura tra loro, come la dolcezza che, a pochi minuti dalla fine, solo chi condivide lo stesso destino, può trasmettere all’altra. Nel braccio della morte della Gestapo c’è un ricambio continuo di donne, di corpi, di anime e di vite. Berlino, estate ’42 è la storia di una resistenza che parte dall’interno, che dove il rischio era più alto, ha tentato di opporsi, con qualsiasi mezzo, al regime nazista.
C’è qualcosa in Berlino, estate ’42, che ricorda lo straordinario e crudele La rosa bianca, dove era l’assurdità delle fretta, dell’approssimazione, e della disumanità con cui tutto si svolse a colpire al cuore. Allo stesso modo nel film di Dresen c’è un processo del quale si sa già quale sarà la conclusione, c’è l’impossibilità di difendersi e ci sono anche quelle azioni che non crearono alcun problema a quel regime totalitario contro cui combattevano. Perché alla fine, solo uno dei messaggi inviati dalla così detta Orchestra rossa, arrivò effettivamente a destinazione, a Mosca ed è il contenuto di tale messaggio ad esibire con estrema limpidezza ancor di più il paradosso di quella detenzione e di quelle condanne. Sono un numero infinito, lunghissimo, forse inqualificabile, quello delle donne che, insieme a Hilde, si avviano verso un destino che le identifica con un numero e come un numero le uccide, una dopo l’altra.
L’oscurità visiva e quella interiore

La narrazione scelta dal regista non poteva così essere altro che gelida, lucida, cupa e obiettiva come è Berlino, estate ’42 che decide di testimoniare, raccontare e dichiarare, per non dimenticare chi, nella capitale del Reich, nell’estremo vicino pericolo, ha sfidato i più spietati membri ed esponenti del partito nazista. I mesi in cella, il parto in condizioni igieniche rischiose, l’incontro con Hans che vede per la prima volta il figlio, il dover informare la propria madre della condanna ricevuta, affidandole il neonato e quel contatto umano quasi impossibile da ritrovare tra detenute e guardie carcerarie, sono tutte sequenze descritte con lo stesso pragmatico registro che sembra allontanarsi da quello più prettamente cinematografico, del quale è maggiormente intrisa la parte dove Hilde vede Hans per la prima volta, dove Hilde inizia lentamente ad entrare maggiormente in quella che verrà chiamata l’Orchestra rossa, e dove ci sarà spazio per l’amore, nonostante la vita da quel momento in poi, appena a un filo gravemente esile e sottile.
Berlino, estate ’42: valutazione e conclusione

La regia di Berlino, estate ’42 opta per un approccio naturale e quasi basilare nella rappresentazione, è la fotografia a dare pathos alle scene che si susseguono nella gioia e nel dolore, per quanto la stessa gioia dell’amore abbia un’armonia recondita, sempre all’erta, nell’incertezza di riuscire a viverlo. I colori di quello che è il passato sono così luminosi, vividi, con tinte per lo più calde e chiare, mentre dal momento dell’arresto, che è l’inizio del film, i contorni si fanno scuri, i colori si spengono e le celle appaiono spoglie, glaciali, esanimi e senza vita. Già teatro di morte. Con una modalità di racconto che va a ritroso, non cronologica, che fa sorgere domande sulla successione degli eventi, su dove tutto sia iniziato e su dove sia veramente finito e che si rivela la più esemplare rappresentazione di una vita che in un attimo è cambiata. Per poi, in un’istante, cambiare nuovamente. Attraverso flashback e ricordi si crea un quadro completo di quella che è stata al vita di Hilde dal momento in cui ha scelto quell’impegno, Berlino, estate ’42 è un film schietto, duro e rigido, inclemente e feroce come è stata la repressione del regime nazista.
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