Ritrovarsi a Tokyo: recensione del film con Romain Duris

Romain Duris è il protagonista di Ritrovarsi a Tokyo, il film diretto da Guillaume Senez su un padre in Giappone alla ricerca della figlia. In sala dal 30 aprile 2025.

Questa è, letteralmente, la storia dell’ago nel pagliaio. È l’unica concessione che Guillaume Senez, regista e sceneggiatore insieme a Jean Denizot, riserva al cinema spettacolare: l’improbabilità statistica di un incontro, che riaccende la vita di due personaggi con un vuoto dentro e molta voglia di riempirlo. È un’implausibilità voluta, cercata, necessaria, che serve a strutturare il percorso emotivo e narrativo del film e gli fa anche un gran bene. Per il resto Ritrovarsi a Tokyo, nelle sale italiane dal 30 aprile 2025 per Teodora Film, è un toccante dramma intimista e un quadro d’ambiente lucido, calibrato, dalla poesia malinconica e ancorato alla realtà. Passato al Toronto Film Festival e in chiusura al Rendez-Vous -Festival del Nuovo Cinema Francese, ora il cast: Romain Duris, Judith Chemla, Mei Cirne-Masuki.

Ritrovarsi a Tokyo: un padre gaijin alla ricerca di sua figlia

Ritrovarsi a Tokyo; cinematographe.it

Si è parlato in maniera impropria di ago nel pagliaio, perché Ritrovarsi a Tokyo – il titolo originale, più esplicito, è Une part manquante – è la storia dell’ago e del pagliaio. Guillaume Senez costruisce l’impalcatura di un film agile a sdoppiarsi senza perdere nulla per strada, che sa servire il versante intimista – il disagio interiore, la volontà di appropriarsi delle cose che mancano – e il racconto di un ambiente, di una realtà sociale, di una cultura. Quale implausibilità statistica serva, alla storia, per mettersi in moto, è presto detto: Tokyo. Al momento in cui si scrive, gli abitanti sono 14 milioni per la città propriamente detta, 40 milioni se si considera l’area metropolitana, comprensiva delle prefetture limitrofe. La possibilità di incontrare, per caso, una persona della quale si sono perse le tracce tanto tempo fa – al punto che sarebbe difficile identificarla anche trovandosela davanti – sono bassissime, quasi nulle. Eppure Jay (Romain Duris) scommette sull’improbabile e, clamorosamente, vince la partita.

Jay è francese di nascita, ma parla giapponese al livello (quasi meglio, a voler esagerare un po’) dei giapponesi; è, insomma, perfettamente mimetizzato. È il padre divorziato di una bambina metà francese e metà giapponese che si chiama Lily, l’ha persa di vista e non per sua volontà. Ritrovarsi a Tokyo, nonostante il clamoroso azzardo statistico, è un racconto imbevuto di una dolorosa verità, umana e culturale. Parte tutto da una particolarità del diritto di famiglia giapponese: in caso di divorzio con figli, non è previsto l’affido congiunto, e non sono concessi diritti di visita al genitore che perde la custodia. A questo va aggiunto che la polizia giapponese difficilmente interferisce in caso di turbolenze familiari e che, per quanto la norma valga anche per i genitori divorziati giapponesi, per quelli come Jay è due volte più dura.

Jay è un gaijin, uno straniero, estraneo nel corpo e nello spirito rispetto a un mondo del quale ha imparato a padroneggiare l’esteriorità – il giapponese impeccabile, la discrezione, la cortesia estrema – ma che non è il suo. Ci sono tanti nella sua condizione, come l’amica Jessica (Judith Tamla); lui guida un taxi per le strade di Tokyo alla ricerca dell’assurdo imprevisto che, un giorno o l’altro, farà salire a bordo la figlia. Quando succede, Jay e Lily (Mei Cirne – Masuki) hanno bisogno di un po’ di tempo per riconoscersi a prendersi le misure, poi si stringono l’uno all’altra. Ritrovarsi a Tokyo è il raro caso del film che moltiplica i piani di lettura e funziona sempre. La storia di un padre e una figlia che devono ritrovarsi. E una riflessione sul sentirsi estranei, stranieri, anche in quella che col tempo diventa la tua casa.

Il particolare e l’universale

Ritrovarsi a Tokyo; cinematographe.it

Può darsi sia sbagliato ragionare di Ritrovarsi a Tokyo in questi termini. Forse è un solo piano di lettura, interpretabile in modi diversi. Il disagio esistenziale di Jay è, intimamente, il vuoto di un padre separato da una figlia di cui ha perso le tracce ma non il ricordo. In superficie, è l’estraneità di un uomo che non capisce, né viene capito, dal mondo che gli sta intorno; uno straniero, in senso burocratico e spirituale. Il Giappone raccontato da Guillaume Senez è l’antitesi della cartolina cinematografica. Non è esotismo a buon mercato, così come l’analisi di una società e una cultura estranee all’orizzonte mentale del protagonista è resa in maniera manichea e bidimensionale, né appiattita su stilemi e pregiudizi pseudo razzisti. Tokyo è una città difficile ma incredibilmente affascinante, e la regia di Guillaume Senez cerca di raccontarne la verità in senso universale, deferente e iconoclasta quel tanto che serve. La spoglia del glamour e di una bellezza lontana e un po’ turistica, cerca angoli poco battuti dalla macchina da presa e, con l’ausilio dell’elegante e mai ostentata fotografia di Elin Kirschfink, ne restituisce una verità più autentica perché lontana dall’enfasi e dalla retorica.

Guillaume Senez e Romain Duris avevano già lavorato insieme in Le nostre battaglie (2018); anche lì famiglie spezzate, anche lì storia di padri e di figli. È il cuore emotivo e tematico del cinema dell’autore belga, e Ritrovarsi a Tokyo porta il messaggio a un livello superiore. Jay e Lily – una prova dolce e piena di dignità, quella della giovane Mei Cirne-Masuki – sono due vuoti da riempire, stranieri dell’esistenza perché lontani l’uno dall’altra. Trovarsi significa riempire lo spazio bianco, onorare il legame e inscenare un rapporto più costruttivo con il mondo. Non è il caso di aspettarsi facili risoluzioni o promesse di felicità eterna; Ritrovarsi a Tokyo è storytelling poetico, ma di una poesia brutalmente ancorata alla realtà. La sua forza è l’ampio respiro. Lega l’universale (il Giappone) all’analisi dell’intimità sofferta del protagonista, racconta le asprezze e le storture del mondo che opprime Jay senza nasconderne i difetti. Cerca l’emozione e la verità nelle piccole e grandi cose della vita, senza il culto della scena madre, senza esasperare i toni, lavorando sul non detto e su quello che, all’apparenza, può sembrare insignificante. L’eleganza del film, anche nelle parentesi più dolorose, è la sua sobrietà.

Ritrovarsi a Tokyo: valutazione e conclusione

Ritrovarsi a Tokyo; cinematographe.it

Ritrovarsi a Tokyo tiene insieme tutto, l’analisi psicologica e il quadro d’ambiente, servendo le necessità di entrambi senza che un versante prenda il sopravvento sull’altro. Demistifica Tokyo, celebrandone il fascino, racconta il sentirsi ai margini della vita mentre celebra un padre e una figlia che si ritrovano dopo tanto tempo. È raro saper conciliare, come riesce all’ottimo Guillaume Senez, poesia e analisi sociale, ma il suo film ha un senso della misura ammirevole; emoziona senza urlare, e non è poco. Aiuta molto la sinergia di vedute tra Senez e il sempre affidabile Romain Duris. L’attore francese si dona anima e corpo alla causa del film, sottolineando la forza interiore di Jay come le sue debolezze e le sue colpe. L’inflessione giapponese quasi perfetta, accompagnata alla strisciante solitudine di questo padre francese in Giappone, straniero nei documenti e straniero nell’anima, è un impressionante ritratto dell’alienazione.

Regia - 4
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 4
Recitazione - 4
Sonoro - 4
Emozione - 4

4