Drugstore Cowboy: la recensione del film di Gus Van Sant
Drugstore Cowboy rappresenta il primo viaggio di Gus Van Sant negli abissi della dipendenza e dell'autodistruzione
Drugstore Cowboy è un film del 1989 diretto da Gus Van Sant, alla sua seconda regia cinematografica dopo Mala Noche, e basato sull’omonimo romanzo autobiografico di James Fogle. I principali interpreti del film sono Matt Dillon, Heather Graham, Kelly Lynch, James LeGros e Max Perlich; è inoltre presente con un piccolo cameo William S. Burroughs, uno dei principali esponenti della Beat Generation.
Nella Portland degli anni ’70 agisce un gruppo di 4 tossicodipendenti, ovvero le coppie formate da Bob Hughes (Matt Dillon) e Dianne (Kelly Lynch) e da Nadine (Heather Graham) e Rick (James LeGros). Il quartetto vive un’esistenza dissoluta e dissennata, procurandosi droghe e narcotici attraverso periodici furti nelle farmacie. La brusca e imprevista vista di una morte per overdose spinge il leader del gruppo Bob a riconsiderare la propria esistenza e a iscriversi a un programma per il recupero dalla tossicodipendenza, dove incontra e stringe amicizia con Tom (William S. Burroughs), un vecchio prete tossico. Il passato di Bob tornerà però prepotentemente a presentare il proprio conto.
Drugstore Cowboy: il primo viaggio di Gus Van Sant negli abissi della dipendenza e dell’autodistruzione
Con Drugstore Cowboy, Gus Van Sant si cimenta con un argomento difficile e controverso come quello della tossicodipendenza, lasciando da parte qualsiasi preconcetto e giudizio morale e cercando di raccontare per immagini ciò che il drogato vede, sente e vive. Il risultato è una pellicola che, grazie anche all’ottima fotografia di Robert Yeoman, alterna momenti grotteschi e onirici ad altri grigi, apatici, quasi glaciali, in un ideale parallelo con gli stati di eccitazione, estasi e abbattimento che il tossico vive in un lungo ciclo di autodistruzione.
In largo anticipo sui successivi Trainspotting, Requiem for a Dream e Blow, Gus Van Sant scruta gli abissi della dipendenza con un taglio asciutto e quasi documentaristico, scandagliando con abili primi piani il tormento, l’alienazione e l’apatia dei protagonisti. Parallelamente, il regista statunitense porta avanti il percorso di redenzione e riscatto del protagonista Bob, in quello che progressivamente si configura come un lungo e circolare flusso di coscienza sulla tossicodipendenza e dentro la tossicodipendenza, basato sulla reale esperienza dell’autore del romanzo su cui è basato il film. L’ironia cede così gradualmente il passo all’amarezza, l’euforia al dolore, la riflessione alla rassegnazione.
Drugstore Cowboy è un vortice violento e malsano, dove gli stupefacenti sono ormai più che una trasgressione.
Drugstore Cowboy viviseziona con lucidità e realismo il mondo della droga, senza risparmiare immagini esplicite dello squallore e dei pericoli che gli ruotano intorno. Lo spettatore è così precipitato in un vortice perverso e malsano, dove gli stupefacenti non sono più una trasgressione, ma un ingranaggio che tiene in moto una routine di follia, autodistruzione e assuefazione. La voglia di riscatto e redenzione si scontra così con l’incapacità di lasciarsi totalmente alle spalle il proprio passato e il proprio lato oscuro (Nel profondo sapevo che non avremmo mai potuto vincere. La nostra era una partita che non si può vincere fino in fondo, dice profeticamente lo stesso Bob all’inizio del film), accompagnando i protagonisti all’espiazione o alla punizione per i propri sbagli.
Drugstore Cowboy è sorretto dalle ottime interpretazioni degli interpreti, fra i quali si distinguono un eccellente Matt Dillon, perfetto nel rendere lo stato di passività e rassegnazione del protagonista, e un’efficace Kelly Lynch, abile invece a incarnare l’oscura sensualità e il pericoloso fascino della tossicodipendenza. Alla sua opera seconda, Gus Van Sant dal canto suo dimostra già un’invidiabile perizia dietro alla macchina da presa, gestendo sapientemente i tempi narrativi senza particolari cali di tono. Di grande efficacia anche la colonna sonora di Elliot Goldenthal, che crea il giusto mood per entrare in sintonia con l’allucinata e lasciva esistenza dei protagonisti.
A quasi 30 anni dalla sua uscita, Drugstore Cowboy si dimostra ancora una pellicola di grande impatto e per certi versi precorritrice nello scandagliare il baratro della tossicodipendenza. Il primo passo di un lungo viaggio di un formidabile cineasta nei meandri più oscuri dell’animo umano, che troverà la propria deflagrazione nel successivo Belli e dannati e il proprio compimento nella cosiddetta Trilogia della morte (Gerry, Elephant e Last Days), fra i momenti più alti del cinema indipendente di questo primo scorcio di secolo.